Tuesday, January 30, 2007

RIVELAZIONI
SARA GRAN: Il richiamo del trascendente

Una giovane donna con una carriera promettente, un marito ideale e la casa dei sogni: cosa potrebbe rovinare questo scenario invidiabile? Solo una possessione demoniaca. è quanto succede ad Amanda, protagonista del bel romanzo di Sara Gran La voce dentro, pubblicato lo scorso settembre da Longanesi. Un romanzo veloce e affascinante, che ha conquistato Bret Easton Ellis e che "M-Rivista del Mistero" ha recensito sullo scorso numero [n.2, 2006]. Abbiamo recentemente contattato l'autrice, una bibliofila appassionata di occulto, per discutere del suo libro – non tramite una tavoletta ouija, ma in una più prosaica chat-room. Sara Gran gestisce un interessante blog all'indirizzo http://saragran.blogspot.com.

Grazie per essere venuta e congratulazioni per il romanzo.
Grazie. Ho visto di recente l'edizione italiana e penso che l'editore abbia fatto uno splendido lavoro – gran bel volume. Credo che sia in lavorazione anche il mio libro successivo, Dope, ma non so per quando sarà pronto.
La voce dentro è uscito in quattordici paesi, il che è fantastico, ma ne ho perso del tutto traccia, non so più chi l'ha pubblicato e dove!

Un grande risultato per un libro avvincente, e terrificante per quanto è credibile. Vorrei porti una domanda banale. C'è spazio, nella storia di Amanda, per l'ambiguità, o dobbiamo dare come fatto assodato che la donna è posseduta?
Io penso che il lettore abbia sempre ragione. Quindi, sì, c'è spazio per l'ambiguità. Dopotutto, un giorno io non ci sarò più ma il libro esisterà ancora e vivrà di vita propria. Detto questo, a me sembra ovvio che Amanda sia veramente posseduta, sebbene molti dei miei lettori non siano d'accordo! No, non era una domanda banale.

Anche secondo me si tratta di un vero caso di possessione. Mi sono chiesta se mi fossi persa qualche segno che riveli che Amanda è semplicemente pazza... Di sicuro lei stessa preferirebbe sentirsi fare una diagnosi del genere, ma la realtà si rivela persino peggiore.
L'idea che avevo in mente durante la stesura del romanzo era di lasciare persistere l'ambiguità, finché sarebbero apparsi dei segni inequivocabili, almeno per me, che Amanda è davvero posseduta. Per esempio, quando capisce ciò che la gente dice in lingue a lei sconosciute: per quello non esiste spiegazione razionale. Ma suppongo che alcuni lettori abbiano pensato che fosse tutto nella sua testa.

Un pensiero più tollerabile.
Sì. Penso che alcuni si sentano a disagio all'idea che la possessione possa essere reale.

Ma fin dalla prima pagina Amanda sembra seguire un percorso già ben definito. I segni della possessione diventano sempre più evidenti, come evidenziano i risultati del test che la protagonista ripete più volte. Da dove ti viene questo interesse per l'esoterismo?
Non so da dove mi venga questo interesse per l'esoterico, ma l'ho sempre avuto. Quando ero bambina amavo leggere strani libri su fantasmi, ufo, cose così.

Credi in una sorta di pensiero magico che ci aiuti a capire il mondo?
Seriamente? Io credo a tutto. E non credo a niente. Davvero. Una volta che ti convinci di conoscere la verità su queste cose, allora puoi essere sicuro di sbagliarti.

Quindi il punto non è ottenere risposte, ma continuare a farsi domande e coltivare il dubbio?
Sì, è un buon modo di vedere la questione. Dubita di tutto. Penso che sia vero in tutti i campi, non solo in ambito esoterico.

Sei una fan di Rosemary's Baby?
Il film di Polanski è uno dei miei preferiti e ha influenzato molto il mio libro, non solo nella trama, ma in particolar modo sull'andamento della narrazione. Volevo che si svelasse tutto a poco, a poco come in Rosemary's Baby.

Entrambe le storie sono spietate. Quali altri romanzi o film hanno influenzato il tuo lavoro?
E' sempre difficile rispondere a questa domanda, ma per La voce dentro posso dire con certezza di essere stata ispirata maggiormente da Shirley Jackson, in particolare da We Have Always Lived in the Castle e da The Bird's Nest. è conosciuta in Europa? Negli Stati Uniti il racconto The Lottery è una lettura obbligatoria nelle scuole.

Io ho amato molto The Haunting of Hill House [pubblicato in Italia da Adelphi con il titolo L’incubo di Hill House], un vero classico del terrore, che riesce a far vivere al lettore la paura che provano i personaggi ancora prima che avvenga qualcosa. Qua la Jackson non è nota come meriterebbe, temo.
Mi chiedevo se La voce dentro voglia essere una riflessione sul conflitto tra il femminile e il maschile. Amanda sembra essere ostile alle autorità maschili. Il suo capo è la prima vittima, anche se solo verbalmente. Poi viene il marito. E l'edicolante sgarbato...
Non ci ho pensato mentre lo scrivevo. Anche se, certamente, volevo che si accendesse un conflitto tra un particolare personaggio di sesso femminile e le figure autoritarie della sua vita, la maggioranza delle quali sono uomini. E' una differenza sottile ma importante.

Non dobbiamo quindi vedere Amanda come simbolo di qualche oscuro potere femminile? Il demone Naama lo è.
Spero di no! Sono rimasta divertita, ma anche sconcertata, da alcuni critici, i quali hanno visto il romanzo come una parabola femminista. Non penso che il senso del femminismo stia nell'uccidere uomini... E non prenderei Amanda come modello esemplare. Direi che possiamo fare meglio di così!
Naama è quello che è, un demone-donna, con caratteristiche peculiarmente femminili, certo, ma non credo sia un simbolo delle donne. Sfortunatamente, ai nostri tempi è difficile parlare di un individuo, o un gruppo di individui, senza che la gente pensi che si sta parlando in generale.

Sembra che il demone costringa Amanda a vedere la realtà con più chiarezza.
In un certo modo è proprio quello che fa, perciò è così allettante per Amanda. Ma Naama, in realtà, le sta mostrando solo una sottile porzione della realtà – una sottile porzione diversa da quella che Amanda vedeva precedentemente, se capisci quel che voglio dire.

Riguardo al marito di Amanda, sembra l'uomo perfetto ma poi si rivela pieno di difetti.
Amanda cerca di vedere solo il suo lato migliore. Ma Naama vuole che lei veda solo quello peggiore. Nessuno dei due è il vero. In fondo, non siamo tutti (e i nostri mariti) pieni di difetti?

Forse il vero demone è l'ego? Amanda viene sedotta dalla possibilità di non preoccuparsi più di nessuno e di niente.
Sì. Penso che quando reprimiamo parti della nostra personalità, queste vengono fuori prima o poi sotto forme non gradevoli. Amanda cerca in tutti i modi di essere "buona", trascurando completamente le parti "non buone" della sua personalità, che divengono facile preda delle manipolazioni del demone.

C'è qualche segnale che forse Amanda ha represso il suo lato più selvaggio, quello della sua vita prima del matrimonio.
Sì, decisamente, ed è parte del suo problema.

Un'ultima domanda sul resto dei tuoi lavori. Dope è un giallo. Cosa possiamo sapere del romanzo che stai scrivendo adesso?
Non mi piace parlare dei lavori che ho in cantiere finché non ho ancora trovato un modo azzeccato per descriverlo. Ma posso dire che è quasi finito e lo mostrerò presto al mio agente!

Tuesday, January 23, 2007

RIVELAZIONI
MARTINA COLE

Originaria dell’Essex, UK, Martina Cole è autrice di grande successo in patria e nel mondo: undici romanzi incentrati sul mondo criminale londinese, più di tre milioni di copie vendute globalmente, due libri – Dangerous Lady e The Jump – adattati per la televisione. Storie forti di grande attualità, crudo realismo e trame coinvolgenti caratterizzano il suo stile peculiare. Editrice Nord ha avuto il merito di proporla al pubblico italiano per la prima volta, con il romanzo The Know, adattato con il titolo Io lo so: è la storia di una prostituta, Joanie, cui rapiscono e uccidono la figlia minore Kira, ragazzina graziosa e amata da tutti, segnata da un lieve ritardo mentale. Tra i personaggi pericolosi che popolano il mondo di Joanie, sarà suo figlio Jon Jon, giovane criminale in ascesa, a cercare vendetta per la sorellina.
In occasione dell’uscita del romanzo, nello scorso marzo, abbiamo incontrato l’autrice, una persona brillante e molto generosa, che ci ha reso partecipi della sua poetica e della sua visione del mondo.

La prima domanda sul suo romanzo, così appassionante e particolare, è di rito: come è arrivata a scrivere di ambienti così difficili, dominati dalla violenza, dalla droga, di temi così duri?
È una domanda a cui ho dovuto rispondere molte volte, sì. Il motivo è che io provengo da ambienti simili a quelli che descrivo. Si scrive di quello che si conosce, e questo è il mondo che io conosco meglio. Si può dire che adesso c’è un certo interesse per come vive “l’altra metà del mondo”... per così dire. Fino a un po’ di tempo fa la gente era interessata alla vita dei ricchi, c’erano le serie tv come Dallas o Dinasty... o Dallasty, come le chiamavano. Oggi invece la gente vuole sapere anche come vivono gli altri strati della società, quelli che stanno nell’ombra. Vogliono comprendere questo mondo, sapere come mai una donna diventa una prostituta: non solo quello che fa ma perché lo fa e questo è ciò che interessa a me.

L’aspetto che più mi ha colpito è che non ci sono buoni o cattivi, ci sono sfumature nei codici morali che sono molto varie. A seconda del comportamento di un personaggio possiamo iniziare a pensare che sì, sia una persona abbastanza morale e onesta, ma poi possiamo cambiare idea. Non c’è nulla di scontato, di prefissato, e questo ovviamente fa pensare il lettore, lo fa ragionare, e può creare confusione. Mi chiedevo se questo aspetto le ha attirato delle critiche, dato che non a tutti piace doversi interrogare costantemente sulla moralità dei personaggi.
Quando è stato pubblicato il mio primo libro in Gran Bretagna nessuno sapeva cosa fare di me, non sapevano dove collocarmi nel mondo editoriale, e per molti anni sono stata ignorata, nonostante le mie vendite cominciassero a salire. Per qualche motivo non sapevano che fare di questa donna, bionda, priva di un’istruzione documentata... anche se io in realtà ho sempre letto molto. Per anni non ho risposto ai criteri di cosa deve essere un autore. Anno dopo anno, però, il mio successo è continuato e gli editori hanno iniziato a capirmi. Adesso vanno alla ricerca di una nuova Martina Cole da mettere nei loro cataloghi.
Per me l’importante è scrivere delle situazioni della vita reale: ci sono molte situazioni nella vita in cui pensiamo che una persona sia in un modo, invece poi scopriamo che non è così. Basta chiedere a qualsiasi uomo o donna che abbia divorziato, per esempio. Io vado un passo più in là, mi metto ad analizzare e cercare di capire perché le cose vadano in un certo modo e perché le persone siano come sono, e le sorprese sono ovunque. Nel mondo degli affari, ma non solo: in qualsiasi campo e sfera della vita ci sono persone che non sono quello che sembrano.
Penso che ciò che si apprezza dei miei libri è che non soltanto c’è una storia da seguire, ma emerge anche il modo in cui le persone vivono la propria vita. Cerco di mettere in luce le situazioni quotidiane, dal momento in cui una persona si alza la mattina e deve portare i figli a scuola fino a quando va a letto alla sera, osservando come riesce a gestire certe situazioni. Ci sono molte cose sbagliate che si fanno per motivi giusti e cose giuste che si fanno per motivi sbagliati, e questi sono aspetti su cui mi soffermo. Certo, il mondo è difficile, può essere spaventoso e può portare confusione nelle persone. Io cerco di scrivere di quelle parti della società che nella vita cerchiamo di ignorare, anche se sappiamo che non dovremmo.

Ha mai subìto censura sui suoi romanzi?
No, in realtà no, e siamo molto fortunati in Inghilterra in questo senso. Soltanto, i miei libri non sono permessi in alcune carceri, in particolare in quelle di massima sicurezza, dove sono detenuti i molestatori sessuali e i pedofili. Questo mi fa molto piacere perché non vorrei che li leggessero comunque.
Diciamo che in questo caso non è davvero censura, solo la constatazione che certi argomenti non sono adatti a certe persone.

Possiamo dire che i suoi sono romanzi sociali, la cui lettura ha una particolare utilità per le persone?
Sì, qualcuno ha definito i miei libri una sorta di social commentary. Sul “Times Literary Supplement”, di recente, un recensore si è soffermato sulla terminologia usata nei miei romanzi, la lingua della strada, dicendo che forse tra cent’anni si discuterà di questo tipo di slang e si cercherà di capire che cosa significasse esattamente. Proprio come oggi si discute della lingua di Shakespeare per capire cosa significassero le parole usate in quel modo, questo
linguaggio sarà documento della nostra epoca.

Ecco una curiosità che avevo: ci può fare qualche esempio di espressioni che noi, leggendo i suoi romanzi in traduzione, ci perderemo?
Nell’East London c’è il dialetto cockney, che è basato soprattutto sulle rime: è un gergo astruso che è stato creato oltre cent’anni fa dai criminali come linguaggio segreto per non farsi comprendere da nessuno. Per esempio, rhythm and blues sta per shoes, scarpe, North and South sta per mouth, bocca, e persino Brad Pitt è diventato shit!... Qualche tempo fa c’era un ministro di nome Edward Heath e aveva dei denti enormi, così il suo nome è diventato un eufemismo per teeth, denti. In UK c’è una soap opera molto popolare, Eastenders, i cui personaggi parlano il cockney... e sono quasi tutti criminali. Gli Eastenders sono gente molto “avanti”, tutto quello che conoscono viene descritto con questo colorito linguaggio, e ciò che ne risulta è una visione molto acuta della realtà. Un altro esempio... per dire soldi si dice bread, pane. Ricordo che una volta, da giovane, vidi una enorme scritta su un muro che diceva “La vita è come un enorme sandwich di merda: più pane – denaro – c’è, meno senti il sapore della merda”. Questa frase mi ha colpito molto! Ma non mettetelo nell’intervista, i lettori potrebbero essere troppo sconvolti. [I nostri lettori sicuramente saranno abbastanza forti. NdR].

La storia di The Know mi ha fatto pensare a un romanzo molto famoso, Mystic River di Dennis Lehane.
Sono molto contenta di questo paragone, anche se il mio libro in UK è uscito prima. Pensando al film che Clint Eastwood ha tratto da Mystic River, mi sovviene un film recente che mi è piaciuto molto, in cui lo stesso Kevin Bacon interpreta splendidamente un pedofilo [The Woodsman - Il segreto]. È molto interessante vedere un personaggio che non vuole essere quello che è e osservare le cose dal suo punto di vista: qual è la sua vita, cosa significa per lui questa condizione. Io ho voluto raccontare la storia dal punto di vista di una persona come Joanie, la protagonista, a cui rapiscono la figlia non certo allo scopo di un riscatto, che non potrebbe neanche pagare. Inavvertitamente, tutti i personaggi sono coinvolti in qualche modo in quello che succede e contribuiscono a far sì che ciò si verifichi.
È una cosa che succede in continuazione nel mondo: pensiamo a chi vende cocaina per la strada e a chi la compra, usandola come una droga sociale: in realtà non si rende conto di quello che avviene in Colombia, dove interi villaggi vengono distrutti per coltivare la cocaina. Questo, in una scala più ridotta, è quello che ho voluto raccontare nel mio romanzo: come tutti noi possiamo essere coinvolti nel causare dei disastri senza rendercene conto, perché non vediamo il quadro complessivo, chiusi come siamo nel nostro microcosmo. È una cosa in cui credo molto: è fondamentale che ognuno si occupi di quello che gli succede vicino, poiché da una piccola cosa può nascerne una grossa. Molti pensano che i piccoli gesti che compiono sono per forza innocui, ma è con quei mattoncini che si costruisce il muro!

Nel prologo sappiamo immediatamente che la piccola Kira è stata rapita e uccisa...
Sì, fin dal mio primo libro questo è il mio modo di raccontare la storia: si sa dall’inizio che cosa succede, a differenza di altri scrittori che trascinano il lettore nella vicenda poco per volta. Io non voglio che il lettore si ricordi che una bambina è stata rapita e uccisa, voglio che si ricordi del personaggio, che lo conosca poco per volta e arrivi ad amarlo veramente: questa è la cosa che mi importa. Qualcuno mi ha anche detto: perché non l’hai tenuta in vita? Ma è così che avviene nella vita reale. Non sempre c’è il lieto fine.

Quali sono le sue letture preferite, le sue influenze?
Quando sto scrivendo non leggo mai libri nuovi, ma cose completamente diverse dai romanzi. Conta molto ciò che ho letto sui giornali o un’espressione sentita da una persona. Molte volte mi viene in mente la figura di un personaggio e poi decido che cosa fargli fare. Scrivere un romanzo è un po’ come giocare a fare Dio, puoi fargli accadere quello che vuoi, renderlo felice oppure no. In genere sono più attratta dagli eventi tristi e tragici, soprattutto quelli che potrebbero essere evitati, e dalle condizioni difficili, di povertà.

Lei è ottimista o pessimista sullo stato della società?
A volte sono ottimista, a volte pessimista. Diciamo che sono un’ottimista con una vena di realismo. Cerco di guardare sempre al lato positivo delle cose.

Always look on the bright side of life...
Sì, come cantano in Brian di Nazareth dei Monty Python! Mi viene in mente una mia amica molto religiosa a cui il figlio, per farle uno scherzo, ha messo il DVD di Brian nella custodia di La passione di Cristo...
Ai miei personaggi succedono cose che schiacciano l’ottimismo, ma la cosa importante da considerare nella vita, secondo me, è che la felicità è uno stato d’animo. Molte persone ne vanno alla ricerca tutta la vita senza rendersi conto che in realtà è sempre stata lì vicino. Questo avviene anche perché la nostra società, con le pubblicità per esempio, ci bombarda di messaggi su cosa dobbiamo avere e fare per essere felici, mentre spesso lo siamo veramente quando facciamo le cose più semplici con le persone che amiamo. Io nella mia vita ho avuto un grande successo, ho ottenuto molto, ma ho perso i miei genitori quando avevo ventuno anni e non ho mai avuto modo di apprezzarli perché ero troppo giovane... A quell’età non si capiscono e apprezzano davvero i propri genitori.

Quali altri libri consiglierebbe a chi ha amato Io lo so?
Direi Faceless, la cui protagonista, Marie Carter, esce di prigione dopo dodici anni. È stata incarcerata per avere ucciso due amiche in modo molto stupido, in preda all’alcool, quando era molto giovane. Quando noi la conosciamo, appena uscita di prigione, è diventata una persona diversa, quella che sarebbe potuta diventare se fosse nata e cresciuta in un altro ambiente. Negli anni di detenzione non ha avuto visitatori, né amici né familiari; quando torna in libertà va a cercare le sue due figlie e si ricostruisce una vita, cercando di non ricadere negli stessi errori. Trova le figlie e scopre che una sta riprecorrendo le sue stesse orme. Noi scopriamo attraverso gli occhi della madre, che osserva la vita della figlia, come era stata la sua stessa vita da giovane. È un libro molto forte, che in Inghilterra i genitori consigliano alle figlie per metterle in guardia dai pericoli che corrono. Un’altra cosa interessante è che la figlia di Marie ha una figlia a sua volta, e le due donne cercano di interrompere questo ciclo. Come tutti i miei libri, anche questo non è per i deboli di cuore. Ha comunque un finale semi-lieto.
Tutti i miei libri parlano di questioni con forte carica emotiva. Un altro è Two Women e parla di violenze domestiche, di come una donna arrivi ad ammazzare il marito. In seguito alla pubblicazione di questo libro sono stata coinvolta nel finanziamento di case di accoglienza per chi ha subìto violenze simili.
CHARLOTTE LINK:
LA CRISI NELL’ESISTENZA

Charlotte Link è un’autrice tra le più amate e seguite in Germania: a quarantadue anni vanta già una nutrita produzione di best-seller e una schiera di lettori appassionati. Se in Italia è conosciuta per i suoi avvincenti mystery, le sue origini come scrittrice sono però da ricercare nel romanzo storico, genere in cui si cimentò per la prima volta a soli sedici anni. È nel 1997, dopo la conclusione di una trilogia ambientata nella Germania dell’Ottocento, che avviene la svolta, con La casa delle sorelle. Una svolta che investe non solo il piano cronologico, ma anche le coordinate di ambientazione e di genere: è infatti il primo romanzo in cui la Link affronta il tempo presente, un’ambientazione “esotica” come l’Inghilterra, e il mystery. Il romanzo ha un successo notevole in patria, bissato dalla buona accoglienza nel nostro paese, e apre le porte ai romanzi che verranno: gialli atipici, il cui interesse principale risiede nelle dinamiche psicologiche dei personaggi, persone comuni alle prese con amori,relazioni fallite, tradimenti e, naturalmente, con il proprio lato oscuro. Tra i successi dell’autrice, ricordiamo La donna delle rose, L’uomo che amava troppo, Alla fine del silenzio.
Ho incontrato Charlotte Link all’Hotel Manin di Milano, in occasione della presentazione italiana del suo ultimo lavoro, La doppia vita, alle soglie dell’estate di quest’anno.

L’aspetto più notevole de La doppia vita è che tutti i (molti) personaggi hanno situazioni difficili da affrontare nella vita di relazione. L’intreccio giallo si innesta su una trama realistica di vita vissuta. Sia gli uomini che le donne hanno dei problemi con i rispettivi partner, amanti, o con l’assenza di essi. Si va dalla normalità, all’eccezionalità al puramente patologico, come nel caso della donna sfigurata dall’acne. Quello che colpisce alla fine del romanzo è che, in ogni caso, le vite di tutti subiscono uno stravolgimento, e non è detto che questo sia sempre senza lati positivi. Perché dunque l’attenzione per questo tipo di evoluzione della coppia, nonché della vita delle persone in generale?
Cerco sempre di mettere i miei personaggi in una situazione generale di crisi, crisi che può essere nella coppia, nel lavoro, o dovuta a una malattia; si tratta comunque di un momento specifico che fa vacillare la vita dai suoi normali binari, e in cui i meccanismi di difesa vengono meno, non funzionano più. È qua, dunque, che lo scrittore si inserisce per trovare il cuore dei personaggi. Il momento di crisi mette in luce non solo le nostre debolezze, ma anche, in qualche modo, consente una certa libertà, ed è per questo che rappresenta sempre un evento molto interessante da analizzare.

A quanto pare molti elementi delle sue storie si riallacciano al romanzo ottocentesco: il legame con il passato, i segreti che riaffiorano, i rapporti umani burrascosi, le passioni, le ambientazioni esotiche e piene di atmosfera, prima l’Inghilterra, poi la Francia. Si sente in qualche modo legata a una tradizione un po’ rétro che prende le mosse da quella letteratura, dal romanzo di genere, dal gotico? Quali sono le sue letture preferite e le maggiori influenze?
Sì, direi che ho un modo molto conservatore di scrivere e penso di essere prossima alla tradizione letteraria del Diciannovesimo secolo. Leggo soprattutto letteratura britannica, thriller, romanzi in genere ma ancora di più mi dedico alla lettura della narrativa scandinava, che da noi è diventata molto popolare in questi ultimi anni. Questo di sicuro ha influenzato il mio modo di scrivere. Ho sempre però una vera passione per le biografie storiche, ne leggo molte.

Lei è partita dal romanzo puramente storico per poi scriverne tanti che svelavano un legame, nello sviluppo della storia, tra alcuni avvenimenti passati e il presente. Ora è approdata a un romanzo che è ambientato interamente ai giorni nostri e in cui non prende più in considerazione periodi passati. Vorrei sapere se c’è un’epoca in cui si sente maggiormente a suo agio come scrittrice.
Adesso come adesso, preferisco decisamente le storie che si svolgono nella nostra epoca, mentre all’inizio scrivevo soltanto romanzi storici, ambientati prevalentemente nel Seicento e Settecento europei. Credo tuttavia che potrei cambiare ancora, tornando al romanzo storico, ma a un certo punto ho preferito cambiare per non rimanere incollata a quel genere, ho deciso di virare...

Come viene percepito il romanzo giallo nel suo paese, la Germania? Viene ancora relegato alla letteratura minore o gode di un certo prestigio “letterario”? Com’è il rapporto con i suoi lettori in quanto autrice di gialli?
Direi che in Germania il thriller va per la maggiore, è molto trendy, non solo fa tendenza ma attira un pubblico davvero vastissimo. Per quanto riguarda il mio personale rapporto con i lettori, è un rapporto che si è consolidato nel tempo, fin da quando scrivevo i romanzi storici. Adesso sono arrivata al punto che non mi chiedono più il romanzo storico, ma accettano quello che io decido di scrivere, indipendentemente dal genere. Il mio contatto con il pubblico si svolge anche in maniera epistolare e questo mi consente di mantenere un rapporto diretto e intenso con i miei lettori.

[La mia prima intervista, e si vede: domande troppo verbose!]
Simone Greco
Fra' Diavolo. L'estetica della guerriglia
Bevivino, 10 euro

La figura leggendaria di Fra' Diavolo mi è nota da ben prima che potessi sentire il suo nome in una lezione di storia: ricordo mio nonno, anni fa, raccontarmi delle imprese del brigante suo compaesano. Entrambi erano originari di Itri, e non solo: i Cardi, miei avi, erano una delle famiglie presso cui Fra' Diavolo era solito radunarsi con i suoi uomini.
Ha attraversato ormai due secoli la fama di Michele Pezza, diventato quasi per caso un assassino, e per vocazione guerrigliero in difesa dei regnanti Borboni contro l'invasore francese, dalle soglie del XIX secolo in poi, per sette, gloriosi anni. Non sembra mai venir meno il piacere della narrazione, di raccontare e far rivivere fatti vissuti, e poco importa se sono distorti dalla leggenda: è pur sempre un modo per gli esseri umani di parlare di se stessi e di ciò che sta loro a cuore.
È questo piacere che anima la collana di originale concezione "Wanted", in cui l'editore Bevivino raccoglie storie che provengono dall'immaginario collettivo, nate di recente (come le imprese della banda della Uno bianca raccontate nel primo volume pubblicato – cfr. "M- Rivista del Mistero" n. 15), oppure risalenti a epoche lontane come quella del brigante di Itri. A corredare la narrazione è l'illustrazione a fumetti di uno degli episodi più coloriti del racconto. Simone Greco, autore di Fra' Diavolo, si basa su una ricca documentazione, ma il suo libro è lontano dall'essere un saggio, e contemporaneamente prende le distanze dall'aneddotica pura. In un volume di agile lettura, poco più di cento pagine, tratteggia un ritratto appassionante di Michele Pezza come uomo e come incarnazione di valori sociali e politici. Il suo fascino del male gli derivava dal rappresentare ciò che né l'inefficiente re di Napoli né il popolo mediocre avrebbero potuto mai sognare di essere: un eroe disposto al sacrificio di sé per la difesa della propria terra, una personalità sanguigna e determinata, del cui carisma erano prova sia il grande seguito ottenuto nelle campagne, dove egli raccoglieva le proprie squadre di guerriglieri, sia l'aura quasi soprannaturale che circondava la sua figura. Un uomo pronto a punire i francesi per il loro ateismo, sebbene con metodi molto distanti da qualsiasi etica cristiana...
Il popolo, quel popolo che Fra' Diavolo, a fasi alterne acclamato e abbandonato, disprezzava in quanto "si piegava a ogni soffio del vento", sembra essere il vero narratore del racconto. All'asciuttezza del cronachista, Greco riesce a unire una particolare cadenza che riproduce, con le sue espressioni desuete o colloquiali e le sue ripetizioni, la voce di chi delle imprese del brigante fu testimone diretto o, più spesso, per sentito dire. Come un moderno cantastorie.
Paola Barbato
Bilico
Rizzoli euro 17,00

Thriller di ambientazione americana con c0mplessi di inferiorità rispetto a quelli “veri”. Storie di polizia bonaria all’italiana, disturbanti come una pizza margherita. Bilico, per fortuna, è distante anni luce dagli uni e dalle altre. Nello sconvolgente romanzo d’esordio della Barbato, già sceneggiatrice di Dylan Dog, l’anatomo-patologa e psichiatra Giuditta Licari indaga su un efferato serial killer che apparentemente sceglie le sue vittime a caso. Nessuno è all’altezza della genialità della dottoressa, personalità dominata da una profonda curiosità verso gli altri esseri umani, eppure gelida nel suo distacco analitico. Nessuno ne è all’altezza tranne l’assassino, che ingaggia una lotta a distanza con Giuditta, riuscendo a coinvolgerla anche sul piano personale.
L’autrice prende dichiaratamente le distanze dalle eroine belle e idealizzate delle serie televisive statunitensi: la sua protagonista è una donna dall’aspetto scialbo, preparatissima e metodica, che gli altri giudicano solida e prevedibile. È la sua vita privata a rivelarsi, ma solo al lettore, piena di ombre. La Barbato snobba altresì le soluzioni di comodo dei “romanzacci di serie B” e costruisce un elaborato marchingegno narrativo davvero sorprendente, che non lascia scampo al lettore e, seducendolo con le lusinghe di una storia larger than life, lo coinvolge in situazioni agghiaccianti che lasciano un retrogusto amaro di reale. La sua forza sta nel non arretrare mai davanti agli eccessi del male. Alla domanda “chi sono i mostri?” risponde tratteggiando un’umanità di varia natura ma tutta ugualmente ambigua: nessuno si salva.
Bilico, come le migliori storie “nere”, indaga il lato non solo oscuro, ma inconoscibile dell’animo umano, in cui albergano impulsi e desideri insieme a qualcosa di più inquietante ancora: il nulla.

Monday, January 22, 2007

Stephen King
La storia di Lisey
traduzione di Tullio Dobner
Sperling & Kupfer
pagg 620, € 18,00

La storia di Lisey è, nella ormai sterminata produzione kinghiana, un’opera di conferme: chi ama lo scrittore del Maine vi ritroverà alcune delle sue tematiche fondanti; chi è convinto che il suo maggior pregio stia nell’umanità dei personaggi ancora prima che nelle invenzioni orrorifiche leggerà il romanzo con piacere, e chi l’ha sempre criticato per i suoi eccessi sarà ugualmente accontentato.
Nonostante lo stesso King sottolinei al lettore che la protagonista, moglie di un autore di best-seller deceduto, Scott Landon, non è un alter ego di Tabitha, la propria consorte, è impossibile non leggere la storia come un affettuoso omaggio alla donna che da anni vive all’ombra dello Scrittore Venerato e il cui ruolo nella sua vicenda personale è invisibile al lettore. In Lisey compare anche, come già in Misery, il tipico fan la cui adorazione sconfina nel delirio, ed è il motore della storia, in uno spunto peraltro un po’ pretestuoso. Il tema portante del romanzo è proprio la follia, che prende varie forme: il demone radicato nella storia familiare di Scott, l’alienazione di Amanda, sorella di Lisey, il fanatismo e il feticismo intellettuale. Alla scrittura, e all’amore, viene attribuito l’unico potere salvifico in grado di contrastarla.
Come nel più classico King, il lato oscuro si materializza, stavolta non in una metà oscura, ma in un intero mondo parallelo che è il rifugio, non solo metaforico ma addirittura fisico e tangibile, di Scott. Un luogo di grande bellezza ma che, in quanto proiezione della mente, diventa pericoloso quando cala il buio... Qui Lisey dovrà seguire le tracce lasciate dal marito defunto per scrivere l’ultima parola della propria storia.
L’eccesso tipico di King rende imperfetto il romanzo, che non manca di tempi morti e che spesso sfiora il kitsch (il ricorrente linguaggio privato di Scott e Lisey risulta imbarazzante). Ma è un eccesso che deriva dalla generosità dello scrittore, il quale nei romanzi dà, e non è un luogo comune, tutto se stesso, rendendoci voyeur di un processo creativo che consente reinterpretazioni ma non finzioni.
Mitch Cullin
Tideland
traduzione di Stefano Tummolini
Fazi
pagine 234, euro 14,50

Non si fatica a capire che cosa abbia colpito Terry Gilliam di questo formidabile romanzo dello statunitense Cullin tanto da trarne il suo ultimo film: il visionario regista fu-Monty Python abbraccia da sempre una poetica del mondo filtrata da occhi infantili e visioni iperboliche e orrorifiche. Occhi e visioni che, lungi dall’edulcorare la realtà, la reinterpretano con nuove chiavi di lettura.
La realtà narrata in Tideland è più che tetra: Jeliza-Rose, undicenne figlia di una rockstar in declino, si trova sola, dopo la morte per overdose di entrambi i genitori, in una casa colonica in mezzo ai campi di grano del Texas. In attesa di un impossibile risveglio del padre, la piccola vaga per i dintorni insieme alle sue uniche amiche, delle teste di bambola cui dà voce e personalità, e fa la conoscenza di due personaggi inquietanti, un’apicultrice che lei crede una strega – e gli eventi sembreranno darle ragione – e suo fratello ritardato, con cui scambia i primi baci. “Tideland” è il regno delle maree, il mondo sottomarino dove Jeliza-Rose e il ragazzo, Dell, trovano rifugio da una realtà che li schiaccia e nega loro un’affettività vera. Un mondo capovolto, come lo scuolabus rovesciato dove la ragazzina immagina le voci di compagni di scuola che non ha mai avuto.
La scrittura visionaria e vivida di Cullin, che narrando in prima persona dà vita a una Jeliza-Rose iperrealista, non risparmia al lettore nessun orrore né invenzione allucinante, in una favola più che mai oscura e opprimente. Ma a dominare su tutto è una profonda, straziante tristezza. Solo un evento eclatante e catartico, forse, potrà infine aprire uno spiraglio nella vita della ragazzina, una breccia che la potrà portare alla consapevolezza della realtà e alla maturità.
Adesso attendiamo solo di vedere la trasposizione filmica di Gilliam che, penalizzata dalla distribuzione, non ha ancora una data di uscita ufficiale in Italia. [aggiornamento: aprile 2007 :-)]
Monica Ali
Alentejo blu
Pagg. 255, EURO 15,00
Tropea

Mamarrosa è un villaggio del Portogallo di quelli che si definiscono “fermi nel tempo”. In Alentejo blu, secondo romanzo di Monica Ali dopo Sette mari e tredici fiumi, esso è teatro dei tormenti esistenziali di personaggi diversi, separati da età, provenienza, esperienze. Dalla giovane Teresa, desiderosa di cambiare vita a Londra, ai locali, depositari della memoria storica del posto, alla coppia di turisti in crisi prima del matrimonio, fino alla famiglia disfunzionale inglese e allo scrittore straniero in cerca di nuova ispirazione, tutti lottano per uscire da una situazione di stasi che sembra di respirare attraverso l’aria del posto. Gli abitanti del villaggio attendono il ritorno di Marco Alfonso Rodrigues, una figura mitizzata, che ha lasciato Mamarrosa da anni e si dice abbia fatto fortuna. Il suo arrivo coincide con una festa che riunirà per un po’ tutti i protagonisti e le loro storie: una conclusione non risolutiva, una mancata catarsi, un anti-climax. Di Marco Afonso non si saprà molto più di prima e la funzione del suo personaggio appare debole e poco chiara.
All’inizio del romanzo, con l’evocazione degli orrori della dittatura di Salazar, fa capolino la Storia con la S maiuscola, ma diventa ben presto chiaro che il vero interesse dell’autrice è rivolto alle storie individuali, ognuna con il proprio carico di ennui, con il proprio fardello sulle spalle. Monica Ali è un’attenta osservatrice: i suoi personaggi ingaggiano dialoghi dal sapore di vita vissuta, e di ciascuno coglie peculiarità e tic. E’ una scrittura precisa, colta, ma eccessivamente auto-consapevole e distaccata, che stenta a coinvolgere davvero il lettore. Molte sono le frasi tagliate come aforismi, che suscitano ammirazione per il loro acume, molte le ellissi utilizzate ad arte, con pudore. Un dipinto vivido ma che non resta nel profondo.

Sara Gran
La voce dentro
trad. Eva Kampmann
pagg 168
Longanesi

Amanda è un giovane architetto in ascesa, sposata a un uomo bello e fine che le dà la stabilità che le mancava. Ha coronato il suo sogno personale di farsi la casa su misura: un loft in un palazzo centenario e semi-deserto, che ha comprato a poco prezzo e ristrutturato con zelo. È lì che inizia a frantumarsi il sogno di questa vita perfetta e promettente, quando lei e il marito vengono perseguitati da un ticchettio che risuona per tutto l’appartamento. Da lì in poi, le stranezze si moltiplicano e per Amanda comincia un personale incubo senza via d’uscita. Voci interiori mai udite prima, sogni troppo realistici, strani incontri e coincidenze, e libri sulla possessione demoniaca che apparentemente per caso si materializzano davanti a lei... Amanda viene spinta alla dissolutezza e al male. Potrebbe – e vorrebbe– essere pazza, ma la spiegazione peggiore sembra anche la più plausibile. La mitica seconda sposa di Adamo, Naama, sembra essersi incarnata in lei.
Fin dalla prima pagina, il demone si manifesta come la parte più istintiva e non repressa di Amanda, incurante di formalità, istituzioni e convenzioni sociali e interessata solo a soddisfare i propri impulsi. Crolla inesorabile anche la visione che la donna ha del marito, di cui inizia a vedere con amara lucidità difetti e comportamenti irritanti. In lei si innesca una lotta tra la sua personalità di sempre e la bestialità di Naama, che le promette un immenso potere in cambio di un legame perverso e inscindibile, e che rappresenta la forza di una femminilità minacciosa.
Sara Gran, autrice statunitense appassionata di testi rari sull’occulto, imbastisce una storia che cattura da subito, inesorabile e credibile, che sembra appartenere più al campo del disturbante psicologico che del gotico, nonostante la sua impostazione la riconduca allo stesso genere di un classico come Rosemary’s Baby – e in questa discendenza troppo diretta sta forse l’unica pecca del romanzo. Resta impressa, insieme al tour de force narrativo, la formidabile immagine dell’amica immaginaria dell’Amanda bambina.
Kenneth J. Harvey
La città che dimenticò di respirare
Einaudi, pp. 529
€ 11,55

Da qualche decennio, nel mondo arido e frettoloso in cui viviamo, la ricerca di un senso innato alle cose prende strade diverse. Nel campo della letteratura tocca al genere fantastico incaricarsi di recuperare quel senso del magico che sembra essere perduto, e che è all’origine dell’attività stessa del raccontare, allo scopo di dare un significato, anche irrazionale, agli eventi.
Il romanzo del canadese Harvey si inserisce nel filone paranormale che ha reso celebri scrittori come il nipponico Koji Suzuki, autore di Ring e Dark Water, con relativi adattamenti al cinema. La città... presenta componenti comuni: la forza degli elementi, il diffondersi di un male oscuro, la sensibilità dei bambini e delle anime semplici, il passato che ritorna.
Esso narra di una strana sindrome respiratoria che improvvisamente coglie gli abitanti di un piccolo villaggio dell’isola di Terranova. Joseph, padre separato, e la figlioletta Robin, che vi trascorrono le vacanze estive, fanno strani incontri, mentre la bambina realizza disegni premonitori di eventi inquietanti. Calamari giganti e squali albini compaiono dal mare, insieme a una serie di cadaveri di persone annegate da anni, se non da secoli. Oltre al respiro, le persone colpite sembrano perdere il senso della propria identità. Ci si rende conto che le cose vanno male da quando il villaggio non vive più della pesca del merluzzo e, invece, la tecnologia ha iniziato a predominare nella vita dei suoi abitanti.
Alla fine del romanzo appare chiaro che il messaggio, non certo nuovo, sia proprio questo: perdere contatto con la natura, nonché con la propria natura di uomini, rende fragili le persone distaccandole dalle proprie radici e dai sentimenti più veri. La storia, all’inizio intrigante, si perde poi tra troppi spaventi, stupori e metafore, lasciando l’impressione che l’autore abbia voluto strafare senza riuscire a dare vita a quell’afflato meraviglioso e magico che evidentemente ricercava.
Kazuo Ishiguro
Non lasciarmi
Einaudi, pp. 291
€ 17,50

Kathy, Tommy e Ruth: memorie di un’infanzia passata insieme. Un collegio esclusivo, prati verdi, bullismo e amicizia, tradizioni e autorità, sogni e speranze. Sembrerebbe un racconto di formazione di stampo inglese come altri, ma è qualcosa di nettamente diverso: quasi una storia di corpi alieni trapiantati nella società. Kazuo Ishiguro non è nuovo a storie crudeli e struggenti, come il suo celebre Quel che resta del giorno, ma in questo magnifico romanzo trova un modo originale di raccontare la ricerca di una identità e di un futuro, e al contempo l’impossibilità della speranza. Il suo tono è segnato dal peggior tipo di nostalgia possibile: quella che si prova per ciò che non si è mai avuto.
Ishiguro si insinua nel solco della tradizione intimista inglese, con un passo deliberatamente cauto, in apparenza lieve. Assume il punto di vista di chi è dentro le mura di una speciale prigione dorata e molto gradualmente fornisce gli indizi per costruire il quadro complessivo: questa è la sua crudeltà di autore, che non lascia scampo né ai suoi personaggi, né al lettore che segue le loro vicende e ne rimane avvinto. Non lasciarmi (un titolo perfettamente vago e neutro che non indica la collocazione del libro in un genere) racconta vite che sono in realtà soltanto una collezione di attimi concessi pietosamente da dèi imperfetti.
E’ la storia di un destino impietoso e da cui non ci si può ribellare. Ma perché? Se conoscere la verità equivale a poter scegliere, perché i protagonisti sembrano rinunciare a questa libertà? Questo, al di là del percorso di indizi e false piste, è il vero mistero del romanzo, di questi personaggi così dolorosamente simili a noi e nello stesso tempo non veramente conoscibili. Torna alla memoria Mr Stevens, il maggiordomo del più celebre libro di Ishiguro sopra menzionato, con la sua dedizione apparentemente cieca...
Octavia E. Butler
La parabola del seminatore
EURO 16,00, 344 p.
Fanucci

Ambientato nel futuro prossimo in una California segnata dal degrado di uomini e strutture, La parabola del seminatore è il diario della giovane Lauren, figlia di un predicatore che vive in una enclave protetta dagli assalti di poveri disperati e di drogati piromani. Dotata di una sindrome di iper-empatia che la porta a condividere il dolore altrui, la ragazza studia il modo per andarsene dal suo microcosmo precariamente protetto e dalle riflessioni che ha raccolto in anni trae gli spunti per fondare una nuova religione, detta Il Seme della Terra.
Si tratta di un romanzo di fantascienza anomalo, che parla di scenari amaramente plausibili, in cui un eccesso di protezione rappresenta l'unico modo di sopravvivere e, al contempo, la negazione dell'umanità e della libertà individuale. L'essere umano, spogliato delle sovrastrutture solite, si mostra senza maschera: al suo peggio, isolato dai suoi simili e capace di bestialità, o al suo meglio, potenzialmente invincibile quando è portato a riscoprire la solidarietà e l ingegno.
Lontano dalle vaghezze New Age, il Seme della Terra è più una filosofia che una religione, poiché non contempla dèi o entità soprannaturali più grandi di noi: "Dio" è l'idea del cambiamento e del plasmare la propria realtà giorno per giorno. Per Lauren non c'è distinzione tra questioni pratiche ed elevazione spirituale, con un pragmatismo molto americano (e in odore di zen). Dalle ceneri di una società che va letteralmente in fumo (è forte nel romanzo la imagery legata agli elementi, come al paesaggio) potrà sorgerne una nuova e più solida. Crolla anche la struttura consumistica, al centro di tutto è di nuovo l'uomo, mentre gli oggetti ritornano a essere meri strumenti con una funzione.
Un romanzo non del tutto originale e a tratti didascalico, ma affascinante e appassionante, da una signora della fantascienza statunitense.
JOYCE CAROL OATES
Storie americane
Tropea, pp. 512, €18
Traduzione di Lucia Fochi e Isabella Zani

Una straordinaria pubblicazione, Storie americane: un'occasione per il lettore di scoprire una scrittrice tra le migliori contemporanee in una delle forme che le sono più congeniali. Nota per i suoi romanzi-fiume, Joyce Carol Oates nasce però come autrice di racconti (ammontano a circa quattrocento) in cui si è allenata a tratteggiare minuziosi ritratti psicologici, femminili ma non solo, immergendoli in un contesto sociale e storico che fa da sfondo alle storie e ne è insieme protagonista. Racconti incentrati su dettagli illuminanti e momenti rivelatori, con uno stile che ha da insegnare a chiunque voglia imparare a scrivere narrativa.
Si tratta di un'opera preziosa in quanto la Oates ne è sia autrice che editor: i brani sono stati da lei stessa selezionati per rappresentare i suoi primi vent'anni di produzione (negli anni Sessanta e Settanta) nonché una sorta di autobiografia letteraria. Sono ventisette storie di grande freschezza e insieme già cariche del mistero e della tensione che animano i suoi libri successivi. Emerge con chiarezza come sia fondante il tema della violenza: violenza come manifestazione esteriore delle passioni e pulsioni umane, del lato oscuro che soggiace alla personalità di ogni essere umano. La violenza è inestricabile dal sentimento amoroso (e ben due racconti hanno nel titolo "amore" e "morte" insieme) e dai giochi di potere in corso tra uomini e donne, ed è fisica e palpabile nei racconti che esplorano questioni razziali.
Protagonisti di buona parte delle storie sono volti e corpi di giovani donne (come sarà poi in Foxfire, romanzo su una gang di ragazze): la femminilità e la giovinezza sono viste dall'autrice come forze a se stanti, che rivendicano il proprio elusivo ma dirompente potere e una posizione nel mondo che viene spesso negata o ristretta. Temi che fanno apparire Joyce Carol Oates come una scrittrice femminista, nel senso meno banale del termine. Toccherà nel 2000 a Blonde, biografia romanzata della diva del cinema per eccellenza, condensare le più profonde riflessioni della narratrice americana sull'identità femminile.
DORIS LESSING
La storia del generale Dann, della figlia di Mara, di Griot e del cane delle nevi
Fanucci, pp. 240, € 16
Traduzione di Simona Fefè

Con questo romanzo Doris Lessing torna a esplorare le collisioni tra ciò che è stato e ciò che è possibile. Da decenni la grande autrice di famiglia inglese ma cresciuta in Rodesia ha affiancato alle storie di impianto realistico una produzione non mimetica e prossima al fantasy. Mentre in una delle sue più belle storie, Il quinto figlio, l’elemento fantastico appariva inaspettatamente in un contesto quotidiano, il principale interesse de La storia del generale Dann... sta nella alterità del mondo in cui si svolgono le vicende. Più delle avventure dei protagonisti conta l’ambientazione. Ifrik (l’ex-Africa) è una tabula rasa su cui la Lessing disegna le avventure della nuova umanità, in un futuro imprecisato, mentre si sciolgono i ghiacci della seconda era glaciale. E’ come una nuova preistoria, in cui la comunicazione di massa non è neanche un ricordo, le lingue straniere sono sconosciute quasi a tutti, le scienze scomparse. Il motivo è che non esiste più il sapere trasmesso dai libri, oggetti antichi di cui rimangono pochi esemplari sfuggiti alle acque e la cui scoperta ossessiona il protagonista. Dann è un novello Ulisse, esploratore inquieto, cantastorie, uomo dal fascino particolare, che torna a casa dopo anni di peregrinaggi per dare corpo a una nuova società.
Nel romanzo, appesantito da un ritmo monocorde, si sente la mancanza della parte fondante della storia (il precedente Mara e Dann, in cui i due protagonisti eponimi erano adolescenti). La Lessing narra attraverso lo sguardo ingenuo dei “futuri” e il chiarissimo messaggio che emerge è che non dobbiamo dare per scontato il valore del sapere a cui siamo giunti dopo millenni di progresso, e in particolare la capacità di accedere alla nostra memoria storica. Lodevole, ma si rimpiangono i complessi personaggi dei suoi romanzi più realistici, specchi limpidi delle contraddizioni della società di oggi e di ieri.
MICHAEL CONNELLY
Utente sconosciuto
Piemme, pp. 367, € 18,90
Traduzione di Gianna Lonza

Il bizzarro ma sensato percorso di una brillante carriera: Michael Connelly, ormai noto a livello mondiale come autore di thriller best-seller, nasce come giornalista di croncaca nera dopo essere stato folgorato dalla lettura della narrativa di Raymond Chandler. Può sembrare bizzarro, dicevo, ma non lo è: chi conosce la poetica chandleriana, sa che lo scopo del maestro dell’hardboiled era non tanto creare trame ingegnose che dimorassero in un universo meramente di fantasia, quanto riflettere proprio quella realtà sporca e imperfetta che macchiava le pagine dei quotidiani giorno dopo giorno.
Al reporter-scrittore Connelly, in verità, l’ingegno nel costruire storie complesse e un po’ improbabili non manca. Di quest’ultimo romanzo, indipendente dalla celebre serie sul detective Harry Bosch, è protagonista Henry Pierce, giovane scienziato nel campo delle più avveniristiche biotecnologie, che nella casa di cui ha appena preso possesso si ritrova assegnato un numero telefonico collegato, su un sito a luci rosse, a una splendida call girl. Al di là dell’irritazione per le chiamate e i messaggi che continua a ricevere, egli intuisce che qualcosa per la ragazza è andato storto e si fa coinvolgere in una vicenda intricata e più pericolosa del previsto. Everyday man coinvolto in una storia più grande di lui, come in un film di Hitchcock, Pierce è un eroe suo malgrado che esemplifica la poetica del suo creatore, il quale dichiara di avere come obiettivo “...una storia con un cuore, con al centro emozioni umane. È l’unico modo di reggere un’indagine su qualcosa che non vorrei sapere.” E in effetti, per il protagonista si tratta di scoperchiare un vaso di pandora e rivivere traumi passati e recenti, insieme alla scoperta di un mondo sordido di cui, chiuso com’era nel suo laboratorio di microscopica perfezione, non aveva nozione. Una storia dal meccanismo inarrestabile che appassiona il lettore trasportandolo in una realtà in cui l’ideale (gli obiettivi alti e “puri” della scienza) si scontra con la mera materialità (gli interessi finanziari che ruotano intorno al mondo scientifico, le ragazze ridotte a merce).
VENDELA VIDA
E adesso puoi andare
Mondadori, pp. 218, € 15
Traduzione di Maurizio Bartocci

Un'esordiente di lusso, Vendela Vida, dal nome esotico ma in realtà una perfetta statunitense, cresciuta tra San Francisco e la Grande Mela. Redattrice presso varie riviste e co-fondatrice della prestigiosa "The Believer", moglie di Dave Eggers e all'attivo un ponderoso saggio sui riti di iniziazione femminile, ha esordito a 31 anni con questo agile romanzo.
Anche al centro di questo libro vi è un rito di passaggio, seppure insolito e del tutto casuale. Nella vita di Ellis, studentessa ventunenne a New York, un giorno di dicembre si insinua il pericolo. Durante una passeggiata nel parco, la ragazza viene avvicinata da un aspirante suicida e minacciata con una pistola. Recita delle poesie per l'uomo, che improvvisamente e senza spiegazione desiste dal gesto e le dice "Adesso puoi andare". Da questo momento la sua vita di tutti i giorni si deve confrontare con il traumatico evento, che diventa di dominio pubblico. L'episodio iniziale, banalizzato, diventa un "caso" e tutti si sentono in dovere di offrire consigli e protezione a Ellis, che nel frattempo si trova a rivedere la propria vita familiare e sentimentale: vari personaggi bizzarri, il padre la cui assenza di quattro anni ha segnato la sua adolescenza, e soprattutto la madre e la sorella con cui riallaccia e approfondisce i rapporti, ricomponendo una ideale triade affettiva.
Ventuno anni di vita ancora aperta a mille possibilità vengono percorsi dall'autrice attraverso le piccole stravaganze di tutti i giorni, le sensazioni, i ricordi in una solo apparente casualità. La narrazione frammentaria è priva di drammaticità, tenera, un po' ripetitiva. Prevalgono annotazioni sulle reazioni psicosomatiche di Ellis, gli odori (quello naturale della madre è di cetriolo, il sentore dell'aglio è legato alla pistola dell'uomo del parco), le osservazioni buffe ("mia madre una volta mi disse che le scarpe sono una cosa di cui i bambini vanno molto fieri"). Uno sguardo acuto o maniera letteraria?
TIM WINTON
Dirt music
Fazi, pp. 416, € 16,50
Traduzione di Maurizio Bartocci

Si trovano magnifiche cose nei romanzi di Tim Winton. C’è un’Australia iperrealista e allucinata che sembra scottare sulla pagina, ardente e viva quanto i personaggi. Winton, scrittore che ha scelto di vivere in una delle zone più isolate della sua terra, all’asetticità della vita moderna non si rassegna, e manda i propri personaggi a cercare un senso del sacro e del bello al di là di qualsiasi apparenza e valore sociale. I suoi sono eroi ruvidi, segnati da eventi terribili, che solo temporaneamente accettano di lasciarsi anestetizzare. Tra Georgie, infermiera in crisi vocazionale, il marito Jim, venerato da un intero paese di pescatori, e il taciturno e misterioso Luther Fox si instaura un triangolo dalle insolite dinamiche, e segreti e legami antichi non mancheranno di venire alla luce.
La narrazione di Winton prende pieghe inaspettate, affronta temi esistenziali ma senza farlo pesare. E’ un viaggio agli estremi del mondo e di se stessi, in cui la redenzione e la rinascita passano anche attraverso la consumazione di sé sotto il sole, nell’acqua e nel vento, riducendosi a pura essenza. Filo conduttore attraverso l’intero romanzo è la musica, linguaggio primordiale ed espressione dell’ineffabile che Lu Fox riscoprirà mentre va incontro al proprio destino. E’ questa la dirt music del titolo, la melodia che risale attraverso le brutture e il fango.
Il romanzo potrebbe essere visto come una storia d’amore senza alcun interesse per il romanticismo convenzionale. Winton è bravissimo a mettere a nudo sentimenti e passioni nella loro crudezza. Maestro di uno stile che riesce a essere naturale ed essenziale e al contempo ricercato, un po’ come i suoi fascinosi personaggi, impressionanti per profondità e complessità. Onore a Fazi e alla sua collana “Le Strade”, sempre più ricca di ottimi nomi della narrativa di lingua inglese e non.
ANNELIES VERBEKE
Dormi!
Instar, pp. 151, € 13,80
Traduzione di Laura Pignatti

Olandese, classe 1976, Annelies Verbeke esordisce nella letteratura dopo un’esperienza come sceneggiatrice. La sua opera prima, acclamata in patria dove ha vinto un premio come miglior debutto del 2004, è un romanzo breve dal sapore intenso. La storia è quella di Maya e Benoit, una giovane donna e un uomo di mezz’età uniti dal medesimo problema: una perenne, invalidante insonnia che li porta a incontrarsi – è destino?, a capirsi al di là delle differenze, a perdersi e ritrovarsi e a sperimentare un insolito rapporto sentimentale. Forse. Nel frattempo, varie disavventure li porteranno ognuno per suo conto ad affrontare a viso aperto i propri fantasmi, per giungere a un capovolgimento delle rispettive vite.
L’invenzione principale della Verbeke è di scegliere un punto di vista particolare, quello dell’insonne, e di portarne fino in fondo le conseguenze. La vita quasi priva di sonno rappresenta il tormentoso ma prezioso accesso a zone inesplorate della coscienza e del mondo. All’inizio del romanzo, Maya, per noia e per spregio, riscopre la propria parte infantile suonando i campanelli delle case nel cuore della notte. Da qui in poi è un progressivo allontanarsi dalla luce del giorno, e della razionalità. Maya e Benoit verranno a contatto con le persone che vivono ai margini della società, facendo esperienza essi stessi della follia e della marginalità. E’ proprio in queste zone d’ombra che, secondo l’autrice, risiede l’essenza stessa dell’umanità.
Originale senza compiacersene e toccante senza sentimentalismi, Dormi! è un libro imprevedibile, divertente più che cupo, intriso di una ironia che è una vera e propria filosofia di vita, e di scrittura. L’autrice condivide con i suoi, evidentemente amati, personaggi la freschezza e la libertà di idee e di sentimenti. Una simbiosi che gioverebbe a tanti scrittori giovani (e non).
MICHAEL CHABON
Soluzione finale
Rizzoli, pp. 166, €12
Traduzione di Luciana Crepax

In questo romanzo ci sono un bambino e un vecchio, ma non c’è scontro generazionale, né un tenero rapporto in stile nonno-nipote o alcuna facile “soluzione finale” tra di loro. Il vecchio vive isolato, tenendosi ben lontano dagli orrori del secondo conflitto mondiale che impazza, è quasi spezzato dal peso dagli anni ma a mantenerlo vivo ha una intelligenza invincibile, quasi sovrumana. Potrebbe essere, intuiamo, il celebre Sherlock Holmes. Linus, il bambino, pur così giovane è già stato invece spezzato: dalla ferocia del nazismo, nella natia Germania. Ha perduto la propria famiglia e la patria, e lo shock gli ha tolto la capacità di parlare. Ha come unico amico un pappagallo che ripete in continuazione una misteriosa sequela di numeri. L’animale verrà rapito: chi è coinvolto, tra i personaggi che popolano la cittadina inglese dove Linus ha trovato ospitalità?
E’ un piccolo giallo, o un tipico romanzo con “pretesto giallo”, quello confezionato da Michael Chabon, che fa incontrare la storia reale con uno dei miti dell’immaginario collettivo, il detective che riesce a prevalere con la propria infallibile logica sul caos del mondo. Ma come appare chiaro all’investigatore da quando la vista di un bambino solitario lo fa uscire dal microcosmo della propria casa e dalla propria aurea indifferenza, “la verità esiste solo nella mente di chi la vuole trovare”.
Al di là della dimensione romanzesca e della sua narrazione volutamente composta ed elegante, da lettura d’altri tempi, Soluzione finale accenna a dilemmi che affondano le radici nel profondo della natura umana. E’ un romanzo popolato da personaggi afflitti dall’incapacità di comunicare e che soccombono sotto il peso dei drammi di ogni giorno. Costruito con estrema ingegnosità da un autore che, tuttavia, potrebbe tenere qualche lettore a distanza con un eccesso di consapevolezza.
GABRIEL GARCIA MARQUEZ
Memoria delle mie puttane tristi
Mondadori, pp. 141, €14
Traduzione di Angelo Morino

Un’altra truffa da parte dei colossi dell’editoria? Il formato dell’ultimo libro del premio Nobel colombiano parla da sé: dimensioni all’osso e caratteri enormi per confezionare qualcosa che assomigli a un bell’hardback e non troppo a un libello e venderlo a 14 euro. Risultato: sembra un libro-bonsai.
Il romanzo in sé è la storia di un giornalista senza qualità e senza amore, da sempre dedito al sesso mercenario, che per celebrare il compimento dei novant’anni decide di regalarsi una notte con una vergine. L’incontro non va secondo copione e l’anziano uomo scopre per la prima volta un sentimento d’amore, per la ragazza e insieme per la giovinezza lontana e dimenticata. Inaspettatamente, la sua vita rifiorisce quando dovrebbe iniziarne il declino.
Da Garcia Marquez non ci si può aspettare un libro mal scritto, e infatti a salvare Memoria è la maestria dell’autore, che ne fa una lettura abbastanza piacevole, condita dalla discreta autoironia con cui il vecchio narratore racconta la strana condizione di vivere in una società di cui si è ormai l’elemento più anziano. Il romanzo sconta però la mancanza di originalità della storia, non compensata da una forte intensità di sentimenti e sensazioni. Altro non è che una fantasia autoindulgente su una giovane che come personaggio in sé non ha peso: esiste solo la visione di lei attraverso gli occhi dell’uomo, egoisticamente. Non è un caso che l’oggetto del suo desiderio sia visto prevalentemente nei momenti in cui è addormentato e passivo. Si sospetta che la stessa autoindulgenza appartenga al celebrato scrittore, che attraverso la voce narrante dell’anonimo protagonista racconta in prima persona il proprio desiderio di vitalità nel momento in cui è anziano e minato dalla malattia. Nonostante il titolo e un linguaggio esplicito, nel romanzo c’è in realtà poco di provocatorio o scomodo.
EUDORA WELTY
La figlia dell’ottimista
Fazi, pp. 187, €13,50
Traduzione di Isabella Zani

America degli anni Cinquanta: da una accogliente cittadina del Mississippi un anziano giudice va a farsi operare agli occhi a New Orleans, dove viene raggiunto dalla figlia Laurel, vedova di guerra, che veglia su di lui insieme alla matrigna Fay, una texana volgare ed egoista. Nonostante il buon esito dell’operazione, la convalescenza dell’uomo sembra protrarsi all’infinito, finché egli non si lascia passivamente morire. Il ritorno della salma al paese natio per il funerale è l’occasione di incontro e scontro tra Laurel, attorniata dalla sua gente, e Fay e la sua rozza famiglia.
Che cosa ha portato il giudice a sposare la quarantenne Fay, così diversa dalla donna che aveva precedentemente amato, la defunta madre di Laurel? Il romanzo è un quieto ma inesorabile dispiegarsi di rivelazioni. A mano a mano che Laurel ripercorre con la memoria il suo passato, emergono i tasselli che ricompongono il quadro di un’intera vita, familiare e individuale, mentre il conflitto tra diverse personalità e modi di vivere esplode in tutta la sua asprezza.
Lo stile della Welty, celebrata narratrice americana, è un naturalismo pacato ma penetrante; ha un formidabile occhio per le scene di vita quotidiana, che si animano davanti agli occhi del lettore. Non si tratta però di una forma di minimalismo distante: mentre Laurel scopre i “segreti” delle persone che ha amato, l’apparente casualità iniziale lascia il posto a uno struggente climax emotivo tutto interiore e a una rivelazione sul senso degli eventi vissuti e della memoria. Unica pecca veniale, qualche metafora – la perdita della vista, l’uccello in trappola – che appesantisce la fluidità della narrazione.
E’ un’opera di grande maturità, in cui l’autrice si rifà a eventi dolorosi della propria biografia, e che le valse un premio Pulitzer. Un’altra valida narratrice tra le nutrite fila di Fazi (da Tim Winton a Colm Tóibín a Hubert Selby Jr).
MARTIN MILLAR
Fate a New York
Lain, pp. 268, €12,50
Traduzione di Lucia Olivieri

Martin Millar è un eclettico personaggio di culto della scena underground inglese: appassionato di musica rock e del mondo greco, di Jane Austen e di Buffy l’ammazzavampiri, autore di narrativa e di fumetti quanto di un originale adattamento teatrale di Emma.
Nel romanzo che l’ha reso celebre, The Good Fairies of New York, il setting urbano che fa da sfondo a tante sue storie si trova a ospitare delle singolari creature, delle fate ribelli giunte dalla natia Scozia e intenzionate a dare vita a un gruppo che suoni il punk in chiave celtica. New York, vista dai loro occhi puri, è un luogo pieno di cose sorprendenti ma anche terribili: non si spiegano perché nessuno aiuti i barboni che continuano a morire per le strade o che cosa spinga la gente a odiarsi se di pelle di colore diverso. Fanno la conoscenza di una graziosa artista malata cronica e di un pessimo violinista dal caratteraccio, insieme a tanti altri stravaganti personaggi dei poveri sobborghi della Grande Mela. Le vite di tutti usciranno cambiate dalla girandola di avventure in cui le fate li trascineranno, fino a un finale da vera favola.
Il romanzo di Millar è ambientato in un mondo di emarginati in perenne lotta con la miseria e la follia ma che affrontano la realtà con vitalità, arricchendola con l’arte e la musica. Un’atmosfera bohémienne congeniale alle fate, le quali portano con sé una totale mancanza di inibizioni, tabù e pregiudizi e la determinazione di riparare ai torti di una società spietata.
E’ un libro intriso di una colorata e allegra anarchia che richiama gli anni Settanta; la favola si sposa a un realismo talvolta abbastanza crudo, ma nel complesso troppo naif e poco incisivo. Pesa soprattutto sul romanzo il sospetto che dietro alla bizzarria non ci sia una vera originalità. Leggero e veloce, perfetto per chi ama la meraviglie arbitrarie del fantasy ma stancante per altri.
Il sito personale dell’autore è www.martinmillar.com .
DAVID SCHICKLER
Baciarsi a Manhattan
Einaudi, pp. 280, €14,00
Traduzione di Giuseppe Strazzeri

Qualsiasi cosa significhi il termine, la newyorkesità esiste. Celebri libri, film, serial televisivi ne sono impregnati: non può essere descritta, ma il suo luccichio è inconfondibile.
Ne sono pervasi anche i racconti di Baciarsi a Manhattan, undici storie unite da tanti fil rouge che si svelano a mano, a mano che la lettura procede. Sono psicopatologie del vivere quotidiano quelle ambientate nelle stanze dell’antico Preemption Building e nei locali alla moda del prestigioso quartiere. Tutti i personaggi di Schickler sono degli eccentrici, portati a fare cose buffe e imprevedibili, ma mai senza una reale e intima motivazione. Anzi, è proprio questa spinta interna che li porta a realizzare la propria identità e che dà a ciascuno dei racconti una profondità che va ben al di là dell’apparente divertissement della trama. Dagli uomini ricchi e carismatici agli oscuri contabili, tutti sono animati dallo stesso idealismo, da un desiderio di mettere a posto le proprie vite, di uscire dalle maglie di un destino troppo spesso sgradevolmente beffardo. E per tutti l’amore e il desiderio appaiono come le uniche linfe vitali possibili. Uomini e donne si alternano nei ruoli di cacciatori o prede in un incalzante girotondo tra locali, appartamenti, aule di università.
L’autore, che con questa raccolta fa il suo debutto, costruisce scene di qualità cinematografica grazie a una scrittura brillante e precisa. Divertentissime, inquietanti e tenere in egual modo, le sue storie prendono in contropiede il lettore, trascinandolo in situazioni da commedia per poi rivelare squarci di inattesa serietà, se non di un mistero spesso smaccatamente fiabesco, altrove quasi metafisico. La sua sublime e distaccata ironia va di pari passo con una curiosità per gli aspetti oscuri e disturbanti dell’animo umano. I suoi personaggi condividono la magica facoltà di capire gli altri dalla luce nei loro occhi, e così fa lui.
Un grande esordio.
COLM TOIBIN
The Master
Fazi, pp. 366, €15,00
Traduzione di Maurizio Bartocci

Stanze in cui chiudersi, finestre da cui osservare il mondo, giochi di sguardi e silenzi più importanti della parola. Addentrarsi nella narrativa di Henry James è come affrontare un labirinto: un’esperienza esasperante e appagante allo stesso tempo. L’impressione è che a James nulla potesse sfuggire: attento osservatore ma soprattutto persona portata al vero ascolto del prossimo, egli seppe cogliere sia gli aspetti esteriori, le maschere sociali, i rituali della ben orchestrata società di cui fu un protagonista, sia vedere al di là di tutto questo per cogliere i minimi movimenti dell’animo umano e le sue contraddizioni in un’opera dalla capacità analitica raramente uguagliata.
Ma questo speciale potere dello scrittore, la sua onniscienza, la capacità di empatia con gli altri esseri umani sulla carta si tradusse in una abilità a vivere? L’irlandese Colm Tóibín, basandosi su un’ampia documentazione, romanza cinque anni della vita del celebre scrittore mostrandone gli aspetti più intimi, le mancanze più dei successi (proprio dal suo più palese fallimento prende le mosse il romanzo). Lontano da ogni cliché sul sacro fuoco degli artisti, The Master ritrae il James uomo in tutta la sua fragilità: solitario e timoroso di assaporare la vita, costantemente trattenuto dal comunicare appieno i propri sentimenti, tormentato da sensi di colpa verso persone adorate, come l’amica Constance Fenimore Woolson cui l’autore dedica uno dei capitoli più struggenti.
Quello che fa del libro un grande risultato è che Tóibín, il quale eleva il suo stile a quello dello scrittore americano, riesce a entrare in simbiosi totale con il suo soggetto, tanto che l’impressione è di leggere un romanzo dello stesso James. La stessa labirintica introspezione, l’acume, l’ironia Tóibín adopera per catturare la complessità del rapporto, mai totalmente chiaro, tra l’uomo e lo scrittore, e il mistero della genesi dell’arte ma soprattutto del destino che tocca a chi la crea.
LUIS SEPULVEDA
Il mondo alla fine del mondo
Guanda, pp. 127, €13,00
Traduzione di Ilide Carmignani

Luis Sepúlveda si rifà alla sua personale esperienza – è stato uno dei più noti corrispondenti della stampa tedesca sulle imprese di Greenpeace – per dare corpo a questo racconto che unisce l’avventura romanzesca all’indagine d’attualità. La vicenda si svolge nel 1988, quando un’agenzia giornalistica legata all’associazione ambientalista riceve un fax che informa di una nave giapponese che ha perso buona parte dell’equipaggio e subìto altri gravi danni. Il protagonista è un giornalista, esule dal Cile come lo stesso autore, che decide di dedicarsi al caso, affidandosi a un vecchio e schivo capitano con il quale tornerà sui mari della sua terra d’origine. Scopre così che l’imbarcazione altro non è una nave baleniera ufficialmente demolita, che può così esercitare impunemente la sua illegale attività.
La scrittura di Sepúlveda è di quelli semplici e dirette che raggiungono grandi fette di pubblico. E’ sinceramente innamorato di ciò che racconta, e questo libro non smentisce questo amore. Egli trasporta il lettore passo per passo nel viaggio del suo indomito reporter: elenca luoghi, traccia itinerari, cita termini locali, narra l’affascinante marginalità di quella che è davvero “la fine della fine del mondo”. Non basta però essere fedeli al proprio materiale, per quanto interessante, per creare un buon racconto. Sepúlveda pensa evidentemente che enunciare il mito voglia dire farlo vivere anche a chi legge, ma non riesce a dargli concretezza e cade spesso nella retorica e nella noia. A perderci è proprio il tema ecologista: sì, ci sono navi che sterminano liberamente animali in via d’estinzione nei modi più barbari, ma non potremmo saperne di più? Paradossalmente, quella che dovrebbe essere un’indagine finisce per non portare alla luce nulla di nuovo.
Una nota sull’edizione: Guanda ripresenta sul mercato un libro uscito appena un anno fa da Tea a un prezzo di €6,50: l’esatta metà di questo.
LISA DIERBECK
Una piccola pastiglia gialla
Garzanti, pp. 312, €14,00
Traduzione di Barbara Bagliano

Ad Alice non piacciono i Pink Floyd e i Led Zeppelin, li trova contorti e cupi. Preferisce la musica melodica di Simon e Garfunkel, limpida come vorrebbe che fosse il suo mondo di undicenne negli anni Settanta. La realtà però non è sotto il suo controllo ed è più simile ai Pink Floyd che a Simon e Garfunkel: la sua famiglia è allo sfascio, la sorellastra e i suoi amici adolescenti inseguono sogni artificiali, mentre il suo stesso corpo sbocciato troppo in fretta la tradisce, conferendole l’aspetto della splendida giovane adulta che non è. Alice conosce presto la solitudine e il senso di smarrimento in un mondo che non le offre appigli, in cui chi le tende una mano lo fa per concupiscenza. Sarà il microcosmo decadente e affascinante di una scuola estiva a donarle un sogno – plasmare la propria personalità attraverso l’arte – e a farle perdere per sempre l’innocenza di bambina.
E’ un bell’esordio quello di Lisa Dierbeck, che del periodo peace&love è stata protagonista davvero e lo racconta senza filtri nostalgici: al posto dell’amore universale non troviamo che infantilità, individualismo, vanità. Ciò che è invece universale è l’esperienza vissuta da Alice, precipitata in un mondo di cui non capisce le regole – il riferimento a Carroll è un po’ facile ma non disturba – e destinata a sperimentare la crudeltà del desiderio e dell’ambizione. Crescerà scoprendo la sorprendente verità che nella vita gli opposti convivono seppure inconciliabili, proprio come lei riesce a essere piccola e allo stesso tempo grande.
La scrittura della Dierbeck è limpida, fresca e cattura brillantemente gli stati d’animo della sua eroina, un’ingenua dotata però di uno sguardo penetrante sul mondo che la circonda. Una lettura appassionante. Accompagnamento perfetto, la visione di Together di Lukas Moodysson.
AZAR NAFISI
Leggere Lolita a Teheran
Adelphi, pp. 380, € 18
(Traduzione di Roberto Serrai)

Azar Nafisi ha scritto un libro che un termine inglese definirebbe bene, inspirational. Tra i saggi recenti imperniati sulla letteratura potrebbe essere accostato a “Perché scrivere romanzi?” di Franzen, in Come stare soli, ugualmente personale, appassionato e stimolante. Dalle memorie di questa insegnante di “letteratura straniera” in Iran, che sono un lucido compendio di più di vent’anni di storia recente del suo paese, emerge un grande concetto: la letteratura è la entità perfettamente democratica, e toglierle la voce è come privare di una parte di ossigeno l’intera collettività. Lo vediamo quando l’autrice si ritrova divisa tra le assurde restrizioni della “rivoluzione islamica” e i furori dei controrivoluzionari di sinistra, che non vorrebbero più occuparsi di autori “borghesi” come Shakespeare e Racine: tra due forze, quindi, ugualmente estremiste e pronte ad annullare il dialogo. La letteratura, in questo scenario di fanatismi, rappresenta la libertà: è la “indipendenza di pensiero” che, secondo il citato Henry James, “consente all’artista l’assalto a infiniti modi di essere”, ma è anche la libertà dei lettori di accedere a questi modi di essere e potervisi confrontare. Quello che fa paura al governo khomeinista è proprio questa “infinità” che rende possibile l’ambiguità e il dubbio, questa capacità di pensiero individuale che i regimi totalitari vorrebbero sempre prerogativa di pochi.
E la libertà è la sensazione che ritrovano, insieme al piacere dell’immaginazione e di sentirsi vive, insegnante e studentesse al seminario “proibito” dedicato a Lolita ricordato nella prima parte.
Sarebbe curioso, in un paese come il nostro in cui i libri sono poco amati, associati allo snobismo culturale e a scaffali polverosi, vedere che effetto fa conoscere una realtà in cui Ragione e sentimento e Camera con vista non sono presenze scontate, ma oggetti del desiderio, portatori di un valore che non viene dato, ormai, quasi più a nulla...
SIDDARTH DHANVANT SHANGHVI
L'ultima canzone
Garzanti, pp. 310, € 14
(traduzione di Alberto Cristofori)

“Tu e io, Pallavi, siamo sbocciate come un pensiero nella mente dell’universo”.
E’ un narratore brillante il giovane Siddhart Dhanvant Shanghvi: la sua scrittura ricca di immagini, ma sempre precisa e limpida aggancia immediatamente il lettore con promesse che non verranno disattese. Di certi autori di origine indiana attualmente in voga non condivide il taglio realista, ma non ha neanche la propensione alla magia spicciola, al folklorismo superficiale e un po’ stucchevole che caratterizza altri.
La sua Ultima canzone – ma il titolo originale specifica del crepuscolo – è una storia ambientata nel delicato momento in cui l’India si scuoteva dal giogo coloniale: il mondo indiano e quello inglese si scontrano restando sempre affascinati l’uno dall’altro. Se questi fatti rimangono però sullo sfondo, raccontati con leggerezza da rotocalco dell’epoca, in primo piano si snodano le vicende private che più stanno a cuore all’autore. Una favola colorata come i tipici sari, venata di erotismo, che si interroga sull’amore, sulle sue profondità e sui suoi vuoti immensi, in cui personaggi liberi nello spirito cercano la bellezza ma devono lottare contro avversità che sembrano scritte nel destino e manifestate attraverso segni e visioni, in un disegno in cui tutto ha una sua collocazione precisa.
Shanghvi prende per sé il ruolo di un cantastorie moderno e lo riveste con sicurezza. Il romanzo stesso è una riflessione sulla narrazione: tutti i personaggi sono narratori, e il più grande male che può capitare loro è proprio non aver più la voglia o la facoltà di parlare o di cantare, raccontando, prima di tutto, la propria storia. Le mura stesse delle case hanno storie che vanno interpretate.
Lo scopo di Siddhart Dhanvant Shanghvi pare essere quello di infuocare le membra e stringere i cuori dei lettori-ascoltatori: se così è, allora ha già in pugno schiere di persone pronti a domandare altre vite, altre storie.
ANGELES MASTRETTA
Il cielo dei leoni
Giunti, pp. 192, €10
(traduzione di Rosa Rita D’Acquarica)

Non manca certo la passione in queste pagine di Angeles Mastretta, giornalista e scrittrice messicana forgiata dal femminismo. L’autrice di romanzi come Strappami la vita e Donne dagli occhi grandi si sofferma qui sui ricordi dei suoi cinquant’anni di vita, tratteggiando per ogni breve capitolo un quadro a tinte accese. Personaggi forti della sua famiglia passata e presente, la contemplazione della natura, le passioni amorose e quelle letterarie, le battaglie e l’idealismo sono gli elementi del rapporto seduttivo che la Mastretta intesse con il mondo. Non la spaventa parlare di emozioni, che mette su carta con orgogliosi toni declamatori. L’idea che scaturisce è quella di una tipica solarità latino-americana, intrisa di un calore che accende la passione per la vita e rende meno tetri gli ostacoli (l’autrice accenna anche al rapporto con la malattia che l’accompagna da sempre, l’epilessia).
La semplicità della scrittura, che di sicuro avvince il lettore, è però bilanciata da una monotonia di stile e contenuto che tende a sminuire lo sforzo sincero della scrittrice: come quando fa l’elenco dei piccoli piaceri che arricchiscono le sue giornate, mettendoli così tutti sullo stesso piano e banalizzandoli. E filosofeggiare non è evidentemente il suo mezzo espressivo: c’è una linea sottile che divide l’osservazione personale e acuta dal già sentito. Le riflessioni della Mastretta sulla vera ricchezza, che non deriva da quanto si possiede, e sulla differenza tra l’allegria e la felicità sono scritte con una certa grazia e belle immagini ma difficilmente risulteranno illuminanti.
Dai capitoli meno autobiografici apprendiamo nondimeno cose interessanti: sullo stato della legislazione sull’aborto in Messico o sul culto nazionale per il poeta Jaime Sabines (pur sempre filtrato dalle esperienze dell’autrice). Fa inoltre piacere trovare un appassionato capitolo dedicato a Edith Wharton: ma che delusione, scoprire che la Mastretta si è dimenticata del nome di Lily Bart e attribuisce a La casa della gioia la protagonista di un altro romanzo dell’autrice americana..
PATRICK McGRATH
Port Mungo
Bompiani, pp. 300, € 16
(traduzione di Alberto Cristofori)

Port Mungo è la storia di un triangolo. E di un mistero. O meglio, non ci sono misteri, piuttosto segreti e persone che li custodiscono, come ripete la narratrice. Segreti che ella stessa non riuscirà mai a cogliere del tutto, perché il suo ruolo è quello della spettatrice: Gin, questo il suo nome, si insinua come uno spettro tra le vicende altrui, anzi, come la zitella che vive di riflesso la propria vita e cerca di tenersi in una posizione marginale, neutrale. Ma attenzione, bisogna diffidare di chi resta in disparte, e soprattutto da chi è mosso dall’invidia: invidia verso un mondo, descritto con nitida credibilità da McGrath, di artisti impulsivi, rapaci, viziati, il cui principale capriccio è il tormento esistenziale. Un mondo che appare come una gabbia rovente di anime che non trovano pace, ma tuttavia vivo, vitale e affascinante: almeno per chi sta al di fuori, per la narratrice e per tutti noi, che siamo i lettori ipocriti, gli sciacalli dei drammi altrui messi su carta.
Nei rapporti tra Gin e il fratello, ovvero il protagonista, il pittore tropicalista Jack, si infila prepotentemente Freud, così come in quello che unisce attraverso vari inquieti decenni Jack e la sua musa, la femme fatale ubriacona Vera. Le tre punte del triangolo cui si accennava sono appunto Jack, Gin e Vera, ma del posto occupato da quest’ultima non si può parlare diffusamente senza rovinare al lettore il piacere della scoperta delle complesse dinamiche che agitano questo romanzo di McGrath.
Il gotico, dai tempi delle infestazioni walpoliane, si è rivelato sempre più una categoria dell’anima, capace di resistere a mutamenti epocali: qua arriva a insinuarsi persino negli indolenti ambienti caraibici come nella New York dei loft freddi ed eleganti. Quello che non perde è la sua dimensione intima, inesorabilmente cupa, capace di brividi a tradimento. (Una nota di biasimo va ai curatori dell’edizione italiana, piena di vistosi refusi. Addirittura una frase risulta incomprensibile).
ANNE TYLER
Turista per caso
Corbaccio, 320 pp.
€ 16,50

Moderna, provocatoria, sperimentale. Dubito che alcuna di queste definizioni venga usata per Anne Tyler. Eppure c’è del genio nei romanzi di questa autrice statunitense, che si è costruita una schiera di lettori fedeli grazie a una produzione “popolare” nel senso migliore (e anti-snobistico) del termine. Si veda, per questo genio poco appariscente, nel titolo di questo celebre romanzo, ristampato da Corbaccio. Il turista per caso, simboleggiato dalla poltrona con le ali, è una felice invenzione, un’immagine paradigmatica consegnata a futura memoria anche da un ispirato film che Lawrence Kasdan trasse dal romanzo nel 1988.
Dove portano queste ali? Ovunque, a patto di restare sempre comodi e di percepire il meno possibile lo spostamento da casa. Macon, il protagonista, scrive guide di viaggio per chi i viaggi li compie per dovere: a differenza degli uomini d’affari suoi lettori, per lui questa è una condizione esistenziale e non materiale. Alla realtà dei giorni e delle persone che muta inesorabile, Macon oppone una elaborata serie di strategie atte a rendere tutto indolore, persino un lutto terribile. Spostare l’attenzione dal centro delle cose al dettaglio inessenziale: un modo per lasciarsi vivere, nell’illusione però di riuscire a dare un ordine alle cose della vita (mentre lo si può dare solo ai barattoli in cucina). Il nuovo sarà rappresentato proprio da una donna che porta con sé cambiamento, disordine e adattabilità. E’ lei a scegliere l’uomo, ma sarà anche l’oggetto della prima, vera scelta compiuta da Macon.
I personaggi di Anne Tyler, da manuale di psicologia (precisissima qui è la descrizione del background familare del protagonista), soffrono dell’umana incapacità di vedersi dal di fuori, di cogliere in sé auto-inganni, contraddizioni, ridicolo. Macon non ne è immune; ma mentre si apre al mondo, apre anche gli occhi, notando come i propri placidi familiari siano “convenzionali eppure strambi”. La Tyler sa bene, e mai manca di sottolineare con ironia, che anche la vita più ordinaria è un susseguirsi di fatti assurdi e paradossali, e in questa visione sta la bellezza non appariscente delle vite che tratteggia, così dolorose, così uniche e sorprendenti.
Jhumpa Lahiri
L’OMONIMO
Marcos y Marcos, pp. 342, €15,50

“Essere stranieri è una sorta di gravidanza che dura tutta la vita - un’attesa perenne, un fardello costante, una sensazione persistente di anomalia.”
Con L’omonimo, sua seconda opera dopo il Pulitzer 2000 L’interprete dei malanni, Jhumpa Lahiri torna ai temi che l’hanno resa cara ai lettori dei precedenti racconti. Se allora l’essere trapiantati in terra straniera dei suoi protagonisti era più spesso lo sfondo su cui articolare un discorso su sentimenti diversi, qua è l’interesse principale dell’autrice, che dichiara esplicitamente di raccontare della stessa condizione di “esilio emotivo” vissuta dai propri genitori, bengalesi immigrati negli U.S.A.
Gogol, il giovane protagonista, condivide con la Lahiri l’appartenenza alla “seconda generazione”, quella dei figli di immigrati, che faticano a trovare un punto di contatto con le tradizioni e le nostalgie dei propri congiunti, e che lottano per trovare una identità propria. Nel romanzo il simbolo di questo conflitto interiore è il nome stesso del protagonista, distante da entrambe le culture, indiana e statunitense, fonte di imbarazzo e di incertezza per il giovane, chiamato con il cognome di uno scrittore russo per motivi che per molti anni gli saranno oscuri. Scoprirà che la via per l’identità vuole dire anche reinventare se stessi.
Se Jhumpa Lahiri aveva già dimostrato un profondo talento per le storie intime di relazioni ed incomunicabilità, con una visione lucida e disincantata che sfiorava la crudeltà, qui mostra in più di avere acquisito una matura, dolente dolcezza. Nel respiro più ampio del romanzo l’autrice riesce a seguire Gogol e gli altri personaggi stando al passo delle loro vite quotidiane, ad appassionare il lettore senza bisogno di scorciatoie, né di una trama artificiosamente complessa. La sua scrittura gode dell’apparente semplicità di chi è perfettamente padrone dei propri mezzi (come già mostrava L’interprete dei malanni), mai banale né casuale. Lontana dal folklorismo e dall’anodinità di altri libri (e film) di autori di origine indiana presto “globalizzati”, la voce della Lahiri è una boccata d’aria rinfrescante, lo stimolo dialettico di cui il panorama letterario ha costantemente bisogno.
DAVID GROSSMAN
Col corpo capisco
Mondadori, pp. 301, € 17,00

Brutta bestia la gelosia. Guardate a cosa spinge un autore apprezzato come David Grossman, scrittore di Gerusalemme che dall’impegno politico è passato a concentrarsi sempre di più sulla sfera delle relazioni intime, come testimonia Che tu sia per me il coltello. Nel primo racconto dei due di questo nuovo lavoro Shaul è un accademico che da dieci anni vive fantasticando sugli incontri dell’amata moglie con un altro uomo, Paul. Cosa fanno la donna e l’amante, ogni giorno dell’anno da dieci anni? Non ci vuole molta immaginazione (complimenti, comunque). I loro sono rendez-vous dall’erotismo patinato (naturale, sono fantasie maschili), ma anche incontri profondi di due anime i cui silenzi sono più pregnanti delle parole (espressi da puntini di sospensione come piovessero). “Eccomi, sono qui per te, così come sono veramente, sbucciami”, si offre lei. Ma ogni tanto le viene anche voglia di ballare, lo dice a Paul, Paul ride sorpreso (il lettore no). Tra una fantasticheria e l’altra la mente di Shaul si intrattiene anche in digressioni oniriche in cui emerge il lato animale della faccenda, il “soffio bestiale e volgare” del desiderio virile.
Cosa ha capito Shaul? Che “lei ama entrambi ma ... in fondo c'è una differenza tra l'amore per il marito e quello per l'altro uomo”, e perciò soffre anche lei. E che, attenzione, “Shaul era una pasta su cui lei poggiava con forza un bicchiere ricavandone cerchi di Paul”.
La storia procede prevedibile, con la levità di uno schiacciasassi letterario, il ritmo ha una monotonia implacabile, l’erotismo soccombe sotto il peso delle metafore e dell’incombenza di essere Grande Letteratura: mai un momento che non sia lirico, pregnante, gravoso. (Quale lirismo avranno poi “cerotti sul cuore” e lupi affamati che escono dalle nebbie mentali?) In realtà, della carne e del tormento cui si aspira non resta che uno scheletro di parole vuote, senza sostanza.
Il secondo racconto cambia nella vicenda ma non nello stile: “questioni di vita o di morte”, sempre riconosciute nel momento in cui si presentano, l’anima, che addirittura “si inarca”, e il corpo suo tramite. E “vasetti di marmellata d’orgoglio allineati sugli scaffali”...
MARCO BELPOLITI
Doppio zero. Una mappa portatile della contemporaneità
Einaudi, pp. 262, € 10,80.

Il pattern, in inglese, è il modello decorativo, la disposizione di colori, linee e forme, lo schema ricorrente, per esempio nella psicologia.
Questo libro particolare e denso, sempre di agile lettura, esplora gli “schemi ricorrenti” del mondo che ci circonda, i modelli, i segni. Se alcuni esistono da sempre, altri, quelli maggiormente scandagliati dall’autore, sono i segni del tempo che stiamo vivendo, gli indizi su cui basare le nostre ipotesi sul futuro che ci aspetta sulla soglia.
Belpoliti è un osservatore curioso, che ha scritto di antropologia, arti, filosofia e scienza, un saggista poco portato all’astrazione, che preferisce piuttosto evocare immagini. Ogni capitolo è come un pattern in cui l’autore accompagna il ns occhio: 43 pattern, suddivisi in varie categorie: Corpi Elementi Segni Interfacce Istantanee Cromie Metropoli Identità, e per finire i profili di importanti menti del nostro tempo come Caillois, Augé, Chatwin. Belpoliti però non si appoggia esclusivamente ai soliti noti: al contrario, va a pescare spunti impensati in libri poco noti. E sono spunti ricchissimi e stimolanti, che aprono percorsi di pensiero dove pensavamo non ce ne fossero. La sua visione ci restituisce l’immagine di un mondo dalla grande ricchezza multisensoriale: ritmi che scandiscono ogni elemento della natura, tri-dimensionalità che diventano bi-, corpi come tabule rase su cui scrivere ed edifici simili a corpi tatuati, città ridisegnate dal computer, il rapporto tra occhio, luce e colore, nuove idee di identità nazionale, arte del disgusto e merci attraenti negli iper-mercati... E non mancano il villaggio globale, il cyber-spazio gibsoniano, la schiuma del cappuccino e la polvere incubo della massaia.
Un saggio dal pensiero globale come si addice ai nostri tempi, con qualche ipotesi che può suonare troppo fantasiosa: ma si sa, la realtà, prima o poi, supera sempre la fantasia e il mondo ultimamente assomiglia sempre più ad un’installazione di arte moderna.
ANNE TYLER
L’amore paziente
Guanda, pp. 268, euro 15,00

Individui come Jeremy probabilmente ne conoscete: persone che non riescono a vivere serenamente insieme agli altri, al di fuori del proprio piccolo spazio personale, vittime di una sensibilità eccezionale che non riesce a selezionare, che non concede loro l’equilibrio emotivo delle persone genericamente dette “normali”. Persone a cui non possiamo applicare parametri e tempi usuali, con cui non possiamo davvero comunicare, perché ci sarà sempre qualche equivoco a frenare lo slancio necessario. Jeremy, consapevole di sé in un modo che gli altri, naturalmente, non immaginano, si è reso egli stesso conto che “le altre persone sembravano avere un nucleo duro, che davano per scontato... L’avevano per natura. Lui era nato senza”.
I punti di vista che si alternano sono quelli dei personaggi che si muovono intorno a lui, e che con lui entrano in qualche modo in contatto. Una sorella, piena di ridicolo buon senso, lo vorrebbe smuovere dalle quattro mura di casa e vederlo costruirsi una vita normale, una ragazza addirittura cade sotto l’incanto della sua aura da artista, conquistata suo malgrado grazie a una sorta di found object art che riscuote discreto successo presso una galleria. Questo è l’unico e doloroso mezzo di espressione a disposizione di un protagonista che però è anche l’unico personaggio che, non a caso, non ha una voce in prima persona.
Ma soprattutto c’è la giovane Mary, che cerca di amare Jeremy con tutto l’amore paziente del titolo, senza realizzare però la reale portata di questo sforzo. E’ lei l’occasione di solarità, romanticismo, tenerezza che l’uomo attende da una vita senza saperlo, la molla di un impercettibile ma miracoloso cambiamento. Ma le cose, per persone come lui, non potranno mai essere semplici. Non lo sono, in un romanzo a tratti illuminante, a tratti straziante, lucido e partecipe delle complicazioni insite nell’alterità dell’arte così come nelle pieghe del quotidiano, nei suoi mille dettagli.