Jhumpa Lahiri
L’OMONIMO
Marcos y Marcos, pp. 342, €15,50
“Essere stranieri è una sorta di gravidanza che dura tutta la vita - un’attesa perenne, un fardello costante, una sensazione persistente di anomalia.”
Con L’omonimo, sua seconda opera dopo il Pulitzer 2000 L’interprete dei malanni, Jhumpa Lahiri torna ai temi che l’hanno resa cara ai lettori dei precedenti racconti. Se allora l’essere trapiantati in terra straniera dei suoi protagonisti era più spesso lo sfondo su cui articolare un discorso su sentimenti diversi, qua è l’interesse principale dell’autrice, che dichiara esplicitamente di raccontare della stessa condizione di “esilio emotivo” vissuta dai propri genitori, bengalesi immigrati negli U.S.A.
Gogol, il giovane protagonista, condivide con la Lahiri l’appartenenza alla “seconda generazione”, quella dei figli di immigrati, che faticano a trovare un punto di contatto con le tradizioni e le nostalgie dei propri congiunti, e che lottano per trovare una identità propria. Nel romanzo il simbolo di questo conflitto interiore è il nome stesso del protagonista, distante da entrambe le culture, indiana e statunitense, fonte di imbarazzo e di incertezza per il giovane, chiamato con il cognome di uno scrittore russo per motivi che per molti anni gli saranno oscuri. Scoprirà che la via per l’identità vuole dire anche reinventare se stessi.
Se Jhumpa Lahiri aveva già dimostrato un profondo talento per le storie intime di relazioni ed incomunicabilità, con una visione lucida e disincantata che sfiorava la crudeltà, qui mostra in più di avere acquisito una matura, dolente dolcezza. Nel respiro più ampio del romanzo l’autrice riesce a seguire Gogol e gli altri personaggi stando al passo delle loro vite quotidiane, ad appassionare il lettore senza bisogno di scorciatoie, né di una trama artificiosamente complessa. La sua scrittura gode dell’apparente semplicità di chi è perfettamente padrone dei propri mezzi (come già mostrava L’interprete dei malanni), mai banale né casuale. Lontana dal folklorismo e dall’anodinità di altri libri (e film) di autori di origine indiana presto “globalizzati”, la voce della Lahiri è una boccata d’aria rinfrescante, lo stimolo dialettico di cui il panorama letterario ha costantemente bisogno.
L’OMONIMO
Marcos y Marcos, pp. 342, €15,50
“Essere stranieri è una sorta di gravidanza che dura tutta la vita - un’attesa perenne, un fardello costante, una sensazione persistente di anomalia.”
Con L’omonimo, sua seconda opera dopo il Pulitzer 2000 L’interprete dei malanni, Jhumpa Lahiri torna ai temi che l’hanno resa cara ai lettori dei precedenti racconti. Se allora l’essere trapiantati in terra straniera dei suoi protagonisti era più spesso lo sfondo su cui articolare un discorso su sentimenti diversi, qua è l’interesse principale dell’autrice, che dichiara esplicitamente di raccontare della stessa condizione di “esilio emotivo” vissuta dai propri genitori, bengalesi immigrati negli U.S.A.
Gogol, il giovane protagonista, condivide con la Lahiri l’appartenenza alla “seconda generazione”, quella dei figli di immigrati, che faticano a trovare un punto di contatto con le tradizioni e le nostalgie dei propri congiunti, e che lottano per trovare una identità propria. Nel romanzo il simbolo di questo conflitto interiore è il nome stesso del protagonista, distante da entrambe le culture, indiana e statunitense, fonte di imbarazzo e di incertezza per il giovane, chiamato con il cognome di uno scrittore russo per motivi che per molti anni gli saranno oscuri. Scoprirà che la via per l’identità vuole dire anche reinventare se stessi.
Se Jhumpa Lahiri aveva già dimostrato un profondo talento per le storie intime di relazioni ed incomunicabilità, con una visione lucida e disincantata che sfiorava la crudeltà, qui mostra in più di avere acquisito una matura, dolente dolcezza. Nel respiro più ampio del romanzo l’autrice riesce a seguire Gogol e gli altri personaggi stando al passo delle loro vite quotidiane, ad appassionare il lettore senza bisogno di scorciatoie, né di una trama artificiosamente complessa. La sua scrittura gode dell’apparente semplicità di chi è perfettamente padrone dei propri mezzi (come già mostrava L’interprete dei malanni), mai banale né casuale. Lontana dal folklorismo e dall’anodinità di altri libri (e film) di autori di origine indiana presto “globalizzati”, la voce della Lahiri è una boccata d’aria rinfrescante, lo stimolo dialettico di cui il panorama letterario ha costantemente bisogno.
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