Friday, December 14, 2007

Ian McEwan
Chesil Beach
Einaudi, pp. 136, € 15,50
Traduzione di Susanna Basso

Edward e Florence, due giovani molto innamorati nell'estate inglese del 1962: appena prima dell'avvento dei Beatles, della rivoluzione sessuale, dell'inizio del mondo come lo conosciamo adesso. Lui, ragazzo pragmatico e di buon cuore, conosce i nomi delle piante e i personaggi storici, lei, di buona famiglia e promettente violinista, vive un'interiorità chiusa in sé che si esprime solo attraverso la musica. In una camera d'albergo sulla romantica spiaggia di ciottoli detta Chesil Beach stanno per consumare la prima notte di nozze, entrambi vergini e ciascuno con aspettative molto diverse. Per meglio dire, Florence non ha aspettative, solo un'ansia immensa e inesprimibile, il desiderio che passi tutto più in fretta possibile, e la paura di deludere il marito. Il quale invece non aspetta altro che dare sfogo alle pulsioni a lungo represse e di scoprire un nuovo mondo di piacere e libertà. I gesti sbagliati, le peggiori scelte di parole e un equivoco che si frappone tra di loro come un muro porteranno la coppia a una irreparabile frattura.
E' un romanzo breve e bellissimo Chesil Beach, un racconto di cristallina semplicità con cui McEwan, dopo il monumentale – per ambizioni, non numero di pagine – Sabato, si propone come voyeur senza morbosità, ritornando con il proverbiale senno di poi a un momento storico che coincide anche con il punto di svolta di due vite individuali. Tralasciando il dettaglio delle vicende dei due giovani (McEwan lascia sottilmente intendere cosa stia alla radice dei problemi sessuali di Florence), si tratta di una storia che parla ai lettori moderni, affrontando l'eterno e doloroso tema della comunicazione tra uomini e donne, del conflitto tra estroversione maschile e introversione femminile, e dei giochi di potere che si mettono in atto anche nella coppia più affiatata: "Ciò che aveva in mente Florence... era l'immancabile smania che lei si concedesse di più. [...] Perfino nei momenti più felici, aleggiava su di loro l'ombra di quel biasimo, il malcelato livore dell'insoddisfazione."
Un romanzo tristissimo, più commovente di una storia romantica in cui a opporsi all'amore dei protagonisti sia un fato malevolo e più grande di loro.
Patrick McGrath
Trauma
Bompiani, pp. 252, € 17
Traduzione di Alberto Cristofori

Non è facile parlare di questo ultimo romanzo di McGrath. Si tratta della storia di Charlie Weir, psichiatra dedicato ma dalla vita privata travagliata, negli anni Settanta: segnato da rapporti conflittuali "da manuale" con la madre abbandonata dal marito e con il fratello con cui è in competizione, persegue da sempre lo scopo di salvare anime umane, scopo in cui fallisce secondo una tragica ironia quando non riesce a evitare il suicidio del cognato, e anzi se ne ritiene responsabile. Una tipica storia alla McGrath sul male di vivere e sulla ricerca di una cura, di un ordine al caos, che altro non è che lo scopo della narrativa stessa. Con Trauma, l'autore procede nella personale reinterpretazione del gotico, categoria dell’anima ancor più che genere letterario, capace di resistere a mutamenti epocali e di non perdere nei secoli la dimensione intima e la cupa fatalità che la caratterizzano da Walpole in poi.
Anche in questo ultimo lavoro il clima gotico scaturisce da uno stile piano, naturalistico, apparentemente senza possibilità di equivoco, priva delle ambiguità di una storia di spettri. Ma il romanzo, come altri dell'autore, è raccontato in prima persona e da questo dipende la posizione problematica del lettore, alle prese con un narratore potenzialmente inattendibile. Quanto inattendibile? Il finale giunge quasi affrettato, avulso dal resto della storia: proiezione onirica oppure unica parte reale dell'intera storia? A complicare la fruizione, la quarta di copertina dell'edizione italiana racconta quello che di fatto è uno spoiler della trama e di cui non c'è traccia nella storia narrata da Weir.
Cosa segna dunque il confine tra le sfumature dell'ambiguità veicolate da un sapiente narratore e l'incomprensibilità pura, se a chi legge non viene dato un appiglio, una chiave di decifrazione che spicchi su altri elementi? O forse il genio sta nel fare piazza pulita delle "mappe" che solitamente lo scrittore offre al lettore, offrendogli la visione della nuda coscienza umana? Il fallimento o il trionfo dell'arte della narrativa?

Wednesday, October 17, 2007

Edward St. Aubyn
La famiglia Melrose
Einaudi, euro 15,50
Traduzione di Maurizio Bartocci

È un titolo fuorviante quello scelto per l’edizione italiana di Mother’s Milk: ai Melrose lo scrittore britannico St. Aubyn aveva già dedicato un’intera trilogia (i romanzi Never Mind, Bad News e Some Hope) negli anni Novanta. Attraverso la figura del protagonista, Patrick Melrose, l'autore ha esorcizzato i traumi delle violenze subite da bambino da parte del padre, l'impulso autodistruttivo, il conflitto con l'ambiente ricco e posh di provenienza, con uno stile tuttavia più vicino alla commedia nera che al dramma.
La famiglia Melrose si apre con la folgorante scena della nascita del primogenito di Patrick, Robert, raccontata dal punto di vista del bambino: queste prime pagine, che in mano a un autore mediocre sarebbero riuscite stucchevoli e banali, segnano invece l'inizio di un romanzo brillante e profondo. Diverse soggettive si alternano, nel racconto di quattro estati nella vita dei membri della famiglia Melrose: Robert è il narratore più sorprendente, un bambino in perfetta sintonia con l'ambiente che lo circonda, capace già da piccolissimo di cogliere e imitare il lato ridicolo del suo prossimo – adulto. Patrick vive in preda a nevrosi e dipendenze e inseguendo impossibili fantasmi erotici, sua moglie Mary è totalmente assorbita dal ruolo di madre, mentre Eleanor, l'anziana signora Melrose, sta per lasciare la dimora francese di famiglia in eredità a un poco convincente guru new age.
St. Aubyn è un vero mago della parola, con cui ricrea ciò che avviene nella mente dei suoi personaggi attraverso momenti rivelatori; bambini e adulti condividono, ciascuno a suo modo, la stessa complessità di sentimenti e visione. La partecipazione emotiva dell'autore non soffoca mai l'acume tagliente con cui egli analizza situazioni e atteggiamenti, il dramma si sposa con una pacata ma implacabile satira, in particolare ai danni dei ricchi, con i loro vuoti esistenziali e le loro velleità ridicole ma spesso rovinose. Senza mai cedere al cliché o al giudizio morale.

Thursday, July 26, 2007

Jonathan Coe
La pioggia prima che cada
Feltrinelli, pp. 224, euro 16
Traduzione di Delfina Vezzoli

Coe ha di recente pubblicato in patria Like a Fiery Elephant, imponente lavoro a metà tra il saggio e la biografia dedicato a B. S. Johnson, scrittore degli anni ‘60-’70 che rifiutò la forma tradizionale del romanzo come innaturale e tendenziosa, e dedicò la sua vita alla ricerca della verità attraverso la parola, conscio che, dopo Joyce e la Woolf, la letteratura "seria" non può più accontentarsi di trame ottocentesche e di personaggi nitidi e conclusi in sé. Evidentemente l'autore di Birmingham ne è stato influenzato, poiché ne La pioggia prima che cada abbandona gli intrecci sorprendenti dei suoi romanzi più celebri per adottare una narrazione più lineare, che all'onniscienza della terza persona sostituisce, in buona parte, la voce narrante di una donna anziana che ricorda gli avvenimenti della sua vita legati alle persone che per lei sono state più importanti, e si rivolge alla giovane donna la cui stessa esistenza è stata il risultato di amicizie, amori, incidenti e rotture susseguitisi in più di cinquant'anni di vita.
Non si può dire che il risultato sia pura avanguardia, e l'espediente usato da Coe non è nuovo. Se c'è una ricerca formale, questa risulta solo parzialmente riuscita, ma sono altri i motivi per cui si ama il libro. E' vero, si rimpiange il funambolico inventore di trame de La famiglia Winshaw o La casa del sonno, con il loro amalgama apparentemente improbabile di umorismo affilato e commozione: ne La pioggia prima che cada prevale una malinconia esistenziale più amara che nei romanzi precedenti (almeno fino ai tempi de Il circolo chiuso). Ciò che si ritrova intatta è la bravura dell'autore nel tratteggiare personaggi segnati dal destino, nel far vivere di vita propria i luoghi stessi, conferendo a ogni storia un senso di vera ineluttabilità, la stessa ineluttabilità che la narratrice, Rosamond, attribuisce al destinatario del suo racconto, la giovane Imogen.
Il rifiuto delle convenzioni romanzesche è più chiaro alla fine, in una laconica dichiarazione di intenti: la vita è più grande della finzione, nonostante qualsiasi tentativo di riordinarla tramite la scrittura – più complessa e caotica, e priva di quel senso di chiusura che rassicura il lettore di un romanzo. Non credete alle coincidenze significative di cui erano ricchi i miei romanzi, sembra dire Coe. Credete sempre, però, alla verità dei personaggi.

[Finalmente ho l'occasione di recensire uno dei miei autori preferiti!]
Phil Lamarche
American Youth - Un omicidio involontario
Bompiani, euro 16,00
Traduzione di Ettore Capriolo

“...Rimanevano soltanto gli alberi indesiderabili – quelli giovani, quelli rovinati o contorti, quelli marci o malati.” Con questa potente immagine si apre American Youth, la storia dell’adolescente Ted e della sua improvvisa e repentina scoperta della dimensione adulta. Giovane e rovinato si ritroverà a essere quando un incidente con un fucile di casa, mostrato per farsi bello agli occhi di due amici fratelli, costerà la vita a uno di loro. Mentre la madre cerca vanamente di proteggere Ted dalle sue responsabilità morali e legali, il ragazzo viene avvicinato da un gruppo di coetanei – l’American Youth – fanatici conservatori, dediti a violente attività moralizzatrici nella piccola comunità, che ne fanno un simbolo suo malgrado. Toccato dalla tragedia, dalla violenza e dal dolore, egli è costretto a fare esperienza di una realtà complessa e tutta da decifrare, un paesaggio – sociale e morale – che si riflette tumultuosamente dentro di lui. Mentre, nella piccola comunità rurale del New Hampshire che si espande inesorabilmente, la American Youth si oppone a ciò che è estraneo, al progresso e al cambiamento, è Ted a cambiare e formarsi una coscienza, trovando miracolosamente una sorta di redenzione.
La scrittura di Phil Lamarche, quasi esordiente – la sua storia In the Tradition of My Family è stata soggetto di un film – rispecchia la desolazione del paesaggio, la sua scarna essenzialità riproduce realisticamente l’interazione tra i personaggi senza concessioni al sentimentalismo. Il che rende ancora più incisiva e toccante la parabola di Ted, esponente di una “gioventù americana” che cerca punti di riferimento in una realtà difficile e chiusa in sé, segnata dalla solitudine, dall’individualismo e dall’aggressività come forma di espressione, e in cui la famiglia stessa fatica ad assolvere il proprio ruolo di aggregatore. Un romanzo attuale, significativo, con le qualità di un acuto studio psicologico e insieme di un autentico page-turner.

Sunday, April 29, 2007

Paul Auster
Viaggi nello scriptorium
Einaudi, euro 14,50
Traduzione di Massimo Bocchiola

L'ultima opera di Auster si insinua nel ricco filone della meta-narrativa, la narrativa "consapevole" che riflette su di sé e sul proprio ruolo nel mondo. Storie contenute in altre storie, romanzi imperniati sullo scrivere romanzi, personaggi consapevoli di esistere in un'opera di finzione, sono tra i possibili scenari di questa forma di rappresentazione, esplosa nell'epoca post-moderna, ma antica quasi quanto la narrazione. La più estrema e "logica" delle possibilità che essa offre, è che i personaggi acquisiscano consapevolezza del proprio essere tali e che incontrino il proprio creatore, colui che con la scrittura ha dato loro vita (fittizia).
E' quanto avviene in Viaggi nello scriptorium: il protagonista, Mr Blank (blank come la pagina bianca, pronta per essere scritta), si ritrova rinchiuso in una stanza, senza memoria di chi sia né della propria storia. Ha un letto, una sedia, una scrivania su cui campeggia un manoscritto non finito. Varie persone, che egli non ricorda ma che sembrano conoscerlo bene, sono carcerieri e badanti insieme, lo accudiscono coPublishn amore ma gli ricordano che ha dei conti in sospeso con loro. Sono i personaggi dei romanzi precedenti di Auster stesso, venuti a chiedere conto delle azioni dell'uomo, presumibilmente il loro creatore.
L'idea alla base del romanzo è affascinante, e coinvolge nella lettura. Ma a mano, a mano che la vicenda si dipana, la complessità allegorica prende il sopravvento sul puro piacere della narrazione. La storia narrata nel manoscritto trovato e poi completato da Blank, un canovaccio di fantapolitica non originalissimo, non contribuisce alla godibilità dell'insieme. Il maggiore difetto dei viaggi nello scriptorium di Auster è che i personaggi-carcerieri, che dovrebbero costituire l'anima del romanzo, sono delle figure piatte, non significative per chi non le conoscesse già da precedenti romanzi. Al centro resta quindi solamente la figura dello scrittore tormentato, in un tour de force narcisistico che poco aggiunge alle riflessioni sulla narrativa fatte con testa e cuore.

Friday, March 16, 2007

Taichi Yamada
Estranei
Nord, euro 14

Una ghost story in cui il fantasma è, forse, l’ombra del rimpianto. Opera di un veterano della tv e della narrativa nipponiche, Estranei è un romanzo che alla pulita linearità di uno stile minimalista unisce una complessità di emozioni e suggestioni che, colpendo la sensibilità del lettore, lascia un’eco che va oltre il tempo della fruizione. Stupisce sempre l’approccio degli autori giapponesi al soprannaturale: non si tratta mai di un pretesto per regalare brividi a buon mercato o suscitare sterile meraviglia, come negli horror modaioli sfornati da Hollywood, ma dell’espressione di una spiritualità vissuta con riverenza e... gratitudine (si veda l’ultima frase di questo romanzo per averne un esempio).
Protagonista di Estranei è Hideo, un uomo di mezz’età rassegnato alla mediocrità della propria vita professionale e soprattutto personale, divorziato da poco e in freddi rapporti con il figlio, il quale si imbatte accidentalmente in due persone che sono pressoché identiche ai genitori morti quando era un ragazzino. L’incredibile evento lo risucchia in un vortice di emozioni e sentimenti rimossi, a mano a mano che in lui si insinua sempre più la convinzione che si tratti veramente dei genitori defunti. Nel frattempo, nel grande stabile dove si è trasferito da poco, Hideo instaura un rapporto sentimentale con una vicina di casa bella e sfortunata. I due incontri gli fanno riscoprire il calore del contatto umano che egli aveva da tempo dimenticato. È un percorso (re)iniziatico che lo riporterà a vivere e mettersi in gioco di nuovo, abbattendo la coltre di apatia e di isolamento dietro cui si nascondeva dagli altri e da se stesso. Data l’eccezionalità delle circostanze, però, non potranno mancare ostacoli inattesi...
Come nella migliore tradizione gotica, nel bel romanzo di Yamada ci sono una fanciulla con un segreto, specchi che mentono come fossero il ritratto di Dorian Gray, e una casa, per la precisione un condominio immenso che si svuota alla sera, poiché quasi tutti gli appartamenti sono esclusivamente adibiti a ufficio, proprio sopra una delle strade più trafficate di Tokyo. Un setting privo del romanticismo delle antiche dimore infestate, ma non meno inquietante. Non potrebbe essere ormai più evidente che il mistero e l’orrore, troppo spesso legati a cliché svuotati di senso, possano scaturire in realtà solo da una condizione umana e psicologica esplorata sapientemente. Yamada riesce brillantemente nell’intento, raccontando la sconvolgente normalità del soprannaturale. Una storia originale in cui il metaforico e il verosimile si scontrano, lasciando il lettore nello stato d’animo più straniante: il dubbio.

Sunday, February 18, 2007

Taichi Yamada
Una voce lontana
Nord, euro 13
Traduzione dall’edizione inglese di Emanuela Cervini

Taichi Yamada, veterano della tv e della narrativa del Sol Levante, è noto in Italia per Estranei, pubblicato anch’esso dall’Editrice Nord nel 2005. Anche questo romanzo, scritto da Yamada quasi vent’anni fa, è una storia di elementi soprannaturali che irrompono nella vita di un uomo qualsiasi. Tsuneo è una persona nel cui passato c’è un buco nero, un incidente da dimenticare capitato in gioventù, in una terra lontana come gli Stati Uniti. Adesso si dedica a un lavoro ingrato – è un ufficiale dell’immigrazione – e vive senza grandi slanci, in attesa di contrarre un matrimonio combinato. Finché, un giorno, un episodio inaspettato e senza spiegazione logica gli provoca delle sensazioni inaudite, sconvolgenti e bellissime. Una voce inizia a parlargli telepaticamente: si tratta di una donna che gli chiede di conversare con lei, di raccontarle la sua vita, e in particolare ciò che era avvenuto negli USA. Questa entità diventa sempre più importante nella vita di Tsuneo, che inizia a trascurare il lavoro, a porsi dubbi sulla personalità della ragazza che sta per sposare, e addirittura a farsi beffe di importanti rituali sociali. Chi è la donna della voce, e lo scoprirà mai Tsuneo?...
Come in Estranei, la scrittura dell’autore è lineare, precisa, capace di esprimere suggestioni complesse e di esplorare con sapienza la psicologia del suo protagonista. Il mistero non è un espediente per donare brividi a buon mercato, bensì lo specchio che rivela i veri sentimenti di personaggi che hanno represso i propri istinti più profondi e che si lasciano vivere. In un senso, si tratta del grimaldello che scardina le convenzioni e le apparenze, particolarmente rigide nella società giapponese. Una voce lontana parte con atmosfere insolite che mettono a prova la razionalità del lettore, per finire in una dimensione schiettamente inquietante, quasi lynchiana. Sembra che il percorso re-iniziatico che compie Tsuneo debba portarlo da qualche parte, ma in realtà il percorso stesso è il punto d’arrivo.
Celia Rees
La casa dei desideri
Salani, euro 13
Traduzione di Valentina Daniele

L’universo di Celia Rees, che migliaia di lettori appassiona nel mondo, è fatto di grandi passioni, avventura, mistero e meraviglie. Dopo storie al femminile come Il viaggio della strega bambina e Corsare, schiettamente avventurose e legate a ere lontane, l’autrice inglese propone ora un romanzo ambientato in un tempo relativamente vicino a noi come il 1976. Il quindicenne protagonista Richard, in vacanza nel Galles con i genitori, scopre che la casa abbandonata che amava esplorare con il suo migliore amico, Wish House, è di nuovo abitata dai legittimi proprietari: si tratta degli anticonformisti Dalton, artisti. Per il ragazzo si apre un mondo nuovo, di valori sconosciuti alla sua grigia e mediocre famiglia: la ricerca della bellezza, la noncuranza alle convenzioni, l’istintività e la libertà sessuale. Con la giovane, fascinosa Clio, Richard scopre la passione, mentre il patriarca Jay, quasi un guru dell’arte figurativa, fa di lui il suo nuovo modello e musa, e sua moglie Lucia lo accoglie come un altro figlio, forse affascinata dalla sua limpida normalità.
La bravura della Rees sta nel ricreare con una scrittura essenziale ma evocativa il tipico momento indimenticabile che segna una vita: per Richard si tratta della scoperta di una dimensione diversa da quella quotidiana e della nuova apertura mentale che ne acquisisce. Il libro stesso, inframmezzato dalle descrizioni dei quadri a ispirazione celtica di Jay, ha una qualità pittorica che lo lascia impresso nella memoria. Intendiamoci, non c’è nulla di nuovo nella descrizione di un ambiente bohemien, delle sue suggestioni e dei suoi misteri, visto dal tipico outsider, che vorrebbe farne parte ma allo stesso non ha gli strumenti per capirlo fino in fondo. Il romanzo è intenso e appassiona, lasciando però un’impressione di incompletezza, come se non si sbilanciasse ad andare abbastanza nel profondo, appoggiandosi invece a stereotipi già noti.

Tuesday, January 30, 2007

RIVELAZIONI
SARA GRAN: Il richiamo del trascendente

Una giovane donna con una carriera promettente, un marito ideale e la casa dei sogni: cosa potrebbe rovinare questo scenario invidiabile? Solo una possessione demoniaca. è quanto succede ad Amanda, protagonista del bel romanzo di Sara Gran La voce dentro, pubblicato lo scorso settembre da Longanesi. Un romanzo veloce e affascinante, che ha conquistato Bret Easton Ellis e che "M-Rivista del Mistero" ha recensito sullo scorso numero [n.2, 2006]. Abbiamo recentemente contattato l'autrice, una bibliofila appassionata di occulto, per discutere del suo libro – non tramite una tavoletta ouija, ma in una più prosaica chat-room. Sara Gran gestisce un interessante blog all'indirizzo http://saragran.blogspot.com.

Grazie per essere venuta e congratulazioni per il romanzo.
Grazie. Ho visto di recente l'edizione italiana e penso che l'editore abbia fatto uno splendido lavoro – gran bel volume. Credo che sia in lavorazione anche il mio libro successivo, Dope, ma non so per quando sarà pronto.
La voce dentro è uscito in quattordici paesi, il che è fantastico, ma ne ho perso del tutto traccia, non so più chi l'ha pubblicato e dove!

Un grande risultato per un libro avvincente, e terrificante per quanto è credibile. Vorrei porti una domanda banale. C'è spazio, nella storia di Amanda, per l'ambiguità, o dobbiamo dare come fatto assodato che la donna è posseduta?
Io penso che il lettore abbia sempre ragione. Quindi, sì, c'è spazio per l'ambiguità. Dopotutto, un giorno io non ci sarò più ma il libro esisterà ancora e vivrà di vita propria. Detto questo, a me sembra ovvio che Amanda sia veramente posseduta, sebbene molti dei miei lettori non siano d'accordo! No, non era una domanda banale.

Anche secondo me si tratta di un vero caso di possessione. Mi sono chiesta se mi fossi persa qualche segno che riveli che Amanda è semplicemente pazza... Di sicuro lei stessa preferirebbe sentirsi fare una diagnosi del genere, ma la realtà si rivela persino peggiore.
L'idea che avevo in mente durante la stesura del romanzo era di lasciare persistere l'ambiguità, finché sarebbero apparsi dei segni inequivocabili, almeno per me, che Amanda è davvero posseduta. Per esempio, quando capisce ciò che la gente dice in lingue a lei sconosciute: per quello non esiste spiegazione razionale. Ma suppongo che alcuni lettori abbiano pensato che fosse tutto nella sua testa.

Un pensiero più tollerabile.
Sì. Penso che alcuni si sentano a disagio all'idea che la possessione possa essere reale.

Ma fin dalla prima pagina Amanda sembra seguire un percorso già ben definito. I segni della possessione diventano sempre più evidenti, come evidenziano i risultati del test che la protagonista ripete più volte. Da dove ti viene questo interesse per l'esoterismo?
Non so da dove mi venga questo interesse per l'esoterico, ma l'ho sempre avuto. Quando ero bambina amavo leggere strani libri su fantasmi, ufo, cose così.

Credi in una sorta di pensiero magico che ci aiuti a capire il mondo?
Seriamente? Io credo a tutto. E non credo a niente. Davvero. Una volta che ti convinci di conoscere la verità su queste cose, allora puoi essere sicuro di sbagliarti.

Quindi il punto non è ottenere risposte, ma continuare a farsi domande e coltivare il dubbio?
Sì, è un buon modo di vedere la questione. Dubita di tutto. Penso che sia vero in tutti i campi, non solo in ambito esoterico.

Sei una fan di Rosemary's Baby?
Il film di Polanski è uno dei miei preferiti e ha influenzato molto il mio libro, non solo nella trama, ma in particolar modo sull'andamento della narrazione. Volevo che si svelasse tutto a poco, a poco come in Rosemary's Baby.

Entrambe le storie sono spietate. Quali altri romanzi o film hanno influenzato il tuo lavoro?
E' sempre difficile rispondere a questa domanda, ma per La voce dentro posso dire con certezza di essere stata ispirata maggiormente da Shirley Jackson, in particolare da We Have Always Lived in the Castle e da The Bird's Nest. è conosciuta in Europa? Negli Stati Uniti il racconto The Lottery è una lettura obbligatoria nelle scuole.

Io ho amato molto The Haunting of Hill House [pubblicato in Italia da Adelphi con il titolo L’incubo di Hill House], un vero classico del terrore, che riesce a far vivere al lettore la paura che provano i personaggi ancora prima che avvenga qualcosa. Qua la Jackson non è nota come meriterebbe, temo.
Mi chiedevo se La voce dentro voglia essere una riflessione sul conflitto tra il femminile e il maschile. Amanda sembra essere ostile alle autorità maschili. Il suo capo è la prima vittima, anche se solo verbalmente. Poi viene il marito. E l'edicolante sgarbato...
Non ci ho pensato mentre lo scrivevo. Anche se, certamente, volevo che si accendesse un conflitto tra un particolare personaggio di sesso femminile e le figure autoritarie della sua vita, la maggioranza delle quali sono uomini. E' una differenza sottile ma importante.

Non dobbiamo quindi vedere Amanda come simbolo di qualche oscuro potere femminile? Il demone Naama lo è.
Spero di no! Sono rimasta divertita, ma anche sconcertata, da alcuni critici, i quali hanno visto il romanzo come una parabola femminista. Non penso che il senso del femminismo stia nell'uccidere uomini... E non prenderei Amanda come modello esemplare. Direi che possiamo fare meglio di così!
Naama è quello che è, un demone-donna, con caratteristiche peculiarmente femminili, certo, ma non credo sia un simbolo delle donne. Sfortunatamente, ai nostri tempi è difficile parlare di un individuo, o un gruppo di individui, senza che la gente pensi che si sta parlando in generale.

Sembra che il demone costringa Amanda a vedere la realtà con più chiarezza.
In un certo modo è proprio quello che fa, perciò è così allettante per Amanda. Ma Naama, in realtà, le sta mostrando solo una sottile porzione della realtà – una sottile porzione diversa da quella che Amanda vedeva precedentemente, se capisci quel che voglio dire.

Riguardo al marito di Amanda, sembra l'uomo perfetto ma poi si rivela pieno di difetti.
Amanda cerca di vedere solo il suo lato migliore. Ma Naama vuole che lei veda solo quello peggiore. Nessuno dei due è il vero. In fondo, non siamo tutti (e i nostri mariti) pieni di difetti?

Forse il vero demone è l'ego? Amanda viene sedotta dalla possibilità di non preoccuparsi più di nessuno e di niente.
Sì. Penso che quando reprimiamo parti della nostra personalità, queste vengono fuori prima o poi sotto forme non gradevoli. Amanda cerca in tutti i modi di essere "buona", trascurando completamente le parti "non buone" della sua personalità, che divengono facile preda delle manipolazioni del demone.

C'è qualche segnale che forse Amanda ha represso il suo lato più selvaggio, quello della sua vita prima del matrimonio.
Sì, decisamente, ed è parte del suo problema.

Un'ultima domanda sul resto dei tuoi lavori. Dope è un giallo. Cosa possiamo sapere del romanzo che stai scrivendo adesso?
Non mi piace parlare dei lavori che ho in cantiere finché non ho ancora trovato un modo azzeccato per descriverlo. Ma posso dire che è quasi finito e lo mostrerò presto al mio agente!

Tuesday, January 23, 2007

RIVELAZIONI
MARTINA COLE

Originaria dell’Essex, UK, Martina Cole è autrice di grande successo in patria e nel mondo: undici romanzi incentrati sul mondo criminale londinese, più di tre milioni di copie vendute globalmente, due libri – Dangerous Lady e The Jump – adattati per la televisione. Storie forti di grande attualità, crudo realismo e trame coinvolgenti caratterizzano il suo stile peculiare. Editrice Nord ha avuto il merito di proporla al pubblico italiano per la prima volta, con il romanzo The Know, adattato con il titolo Io lo so: è la storia di una prostituta, Joanie, cui rapiscono e uccidono la figlia minore Kira, ragazzina graziosa e amata da tutti, segnata da un lieve ritardo mentale. Tra i personaggi pericolosi che popolano il mondo di Joanie, sarà suo figlio Jon Jon, giovane criminale in ascesa, a cercare vendetta per la sorellina.
In occasione dell’uscita del romanzo, nello scorso marzo, abbiamo incontrato l’autrice, una persona brillante e molto generosa, che ci ha reso partecipi della sua poetica e della sua visione del mondo.

La prima domanda sul suo romanzo, così appassionante e particolare, è di rito: come è arrivata a scrivere di ambienti così difficili, dominati dalla violenza, dalla droga, di temi così duri?
È una domanda a cui ho dovuto rispondere molte volte, sì. Il motivo è che io provengo da ambienti simili a quelli che descrivo. Si scrive di quello che si conosce, e questo è il mondo che io conosco meglio. Si può dire che adesso c’è un certo interesse per come vive “l’altra metà del mondo”... per così dire. Fino a un po’ di tempo fa la gente era interessata alla vita dei ricchi, c’erano le serie tv come Dallas o Dinasty... o Dallasty, come le chiamavano. Oggi invece la gente vuole sapere anche come vivono gli altri strati della società, quelli che stanno nell’ombra. Vogliono comprendere questo mondo, sapere come mai una donna diventa una prostituta: non solo quello che fa ma perché lo fa e questo è ciò che interessa a me.

L’aspetto che più mi ha colpito è che non ci sono buoni o cattivi, ci sono sfumature nei codici morali che sono molto varie. A seconda del comportamento di un personaggio possiamo iniziare a pensare che sì, sia una persona abbastanza morale e onesta, ma poi possiamo cambiare idea. Non c’è nulla di scontato, di prefissato, e questo ovviamente fa pensare il lettore, lo fa ragionare, e può creare confusione. Mi chiedevo se questo aspetto le ha attirato delle critiche, dato che non a tutti piace doversi interrogare costantemente sulla moralità dei personaggi.
Quando è stato pubblicato il mio primo libro in Gran Bretagna nessuno sapeva cosa fare di me, non sapevano dove collocarmi nel mondo editoriale, e per molti anni sono stata ignorata, nonostante le mie vendite cominciassero a salire. Per qualche motivo non sapevano che fare di questa donna, bionda, priva di un’istruzione documentata... anche se io in realtà ho sempre letto molto. Per anni non ho risposto ai criteri di cosa deve essere un autore. Anno dopo anno, però, il mio successo è continuato e gli editori hanno iniziato a capirmi. Adesso vanno alla ricerca di una nuova Martina Cole da mettere nei loro cataloghi.
Per me l’importante è scrivere delle situazioni della vita reale: ci sono molte situazioni nella vita in cui pensiamo che una persona sia in un modo, invece poi scopriamo che non è così. Basta chiedere a qualsiasi uomo o donna che abbia divorziato, per esempio. Io vado un passo più in là, mi metto ad analizzare e cercare di capire perché le cose vadano in un certo modo e perché le persone siano come sono, e le sorprese sono ovunque. Nel mondo degli affari, ma non solo: in qualsiasi campo e sfera della vita ci sono persone che non sono quello che sembrano.
Penso che ciò che si apprezza dei miei libri è che non soltanto c’è una storia da seguire, ma emerge anche il modo in cui le persone vivono la propria vita. Cerco di mettere in luce le situazioni quotidiane, dal momento in cui una persona si alza la mattina e deve portare i figli a scuola fino a quando va a letto alla sera, osservando come riesce a gestire certe situazioni. Ci sono molte cose sbagliate che si fanno per motivi giusti e cose giuste che si fanno per motivi sbagliati, e questi sono aspetti su cui mi soffermo. Certo, il mondo è difficile, può essere spaventoso e può portare confusione nelle persone. Io cerco di scrivere di quelle parti della società che nella vita cerchiamo di ignorare, anche se sappiamo che non dovremmo.

Ha mai subìto censura sui suoi romanzi?
No, in realtà no, e siamo molto fortunati in Inghilterra in questo senso. Soltanto, i miei libri non sono permessi in alcune carceri, in particolare in quelle di massima sicurezza, dove sono detenuti i molestatori sessuali e i pedofili. Questo mi fa molto piacere perché non vorrei che li leggessero comunque.
Diciamo che in questo caso non è davvero censura, solo la constatazione che certi argomenti non sono adatti a certe persone.

Possiamo dire che i suoi sono romanzi sociali, la cui lettura ha una particolare utilità per le persone?
Sì, qualcuno ha definito i miei libri una sorta di social commentary. Sul “Times Literary Supplement”, di recente, un recensore si è soffermato sulla terminologia usata nei miei romanzi, la lingua della strada, dicendo che forse tra cent’anni si discuterà di questo tipo di slang e si cercherà di capire che cosa significasse esattamente. Proprio come oggi si discute della lingua di Shakespeare per capire cosa significassero le parole usate in quel modo, questo
linguaggio sarà documento della nostra epoca.

Ecco una curiosità che avevo: ci può fare qualche esempio di espressioni che noi, leggendo i suoi romanzi in traduzione, ci perderemo?
Nell’East London c’è il dialetto cockney, che è basato soprattutto sulle rime: è un gergo astruso che è stato creato oltre cent’anni fa dai criminali come linguaggio segreto per non farsi comprendere da nessuno. Per esempio, rhythm and blues sta per shoes, scarpe, North and South sta per mouth, bocca, e persino Brad Pitt è diventato shit!... Qualche tempo fa c’era un ministro di nome Edward Heath e aveva dei denti enormi, così il suo nome è diventato un eufemismo per teeth, denti. In UK c’è una soap opera molto popolare, Eastenders, i cui personaggi parlano il cockney... e sono quasi tutti criminali. Gli Eastenders sono gente molto “avanti”, tutto quello che conoscono viene descritto con questo colorito linguaggio, e ciò che ne risulta è una visione molto acuta della realtà. Un altro esempio... per dire soldi si dice bread, pane. Ricordo che una volta, da giovane, vidi una enorme scritta su un muro che diceva “La vita è come un enorme sandwich di merda: più pane – denaro – c’è, meno senti il sapore della merda”. Questa frase mi ha colpito molto! Ma non mettetelo nell’intervista, i lettori potrebbero essere troppo sconvolti. [I nostri lettori sicuramente saranno abbastanza forti. NdR].

La storia di The Know mi ha fatto pensare a un romanzo molto famoso, Mystic River di Dennis Lehane.
Sono molto contenta di questo paragone, anche se il mio libro in UK è uscito prima. Pensando al film che Clint Eastwood ha tratto da Mystic River, mi sovviene un film recente che mi è piaciuto molto, in cui lo stesso Kevin Bacon interpreta splendidamente un pedofilo [The Woodsman - Il segreto]. È molto interessante vedere un personaggio che non vuole essere quello che è e osservare le cose dal suo punto di vista: qual è la sua vita, cosa significa per lui questa condizione. Io ho voluto raccontare la storia dal punto di vista di una persona come Joanie, la protagonista, a cui rapiscono la figlia non certo allo scopo di un riscatto, che non potrebbe neanche pagare. Inavvertitamente, tutti i personaggi sono coinvolti in qualche modo in quello che succede e contribuiscono a far sì che ciò si verifichi.
È una cosa che succede in continuazione nel mondo: pensiamo a chi vende cocaina per la strada e a chi la compra, usandola come una droga sociale: in realtà non si rende conto di quello che avviene in Colombia, dove interi villaggi vengono distrutti per coltivare la cocaina. Questo, in una scala più ridotta, è quello che ho voluto raccontare nel mio romanzo: come tutti noi possiamo essere coinvolti nel causare dei disastri senza rendercene conto, perché non vediamo il quadro complessivo, chiusi come siamo nel nostro microcosmo. È una cosa in cui credo molto: è fondamentale che ognuno si occupi di quello che gli succede vicino, poiché da una piccola cosa può nascerne una grossa. Molti pensano che i piccoli gesti che compiono sono per forza innocui, ma è con quei mattoncini che si costruisce il muro!

Nel prologo sappiamo immediatamente che la piccola Kira è stata rapita e uccisa...
Sì, fin dal mio primo libro questo è il mio modo di raccontare la storia: si sa dall’inizio che cosa succede, a differenza di altri scrittori che trascinano il lettore nella vicenda poco per volta. Io non voglio che il lettore si ricordi che una bambina è stata rapita e uccisa, voglio che si ricordi del personaggio, che lo conosca poco per volta e arrivi ad amarlo veramente: questa è la cosa che mi importa. Qualcuno mi ha anche detto: perché non l’hai tenuta in vita? Ma è così che avviene nella vita reale. Non sempre c’è il lieto fine.

Quali sono le sue letture preferite, le sue influenze?
Quando sto scrivendo non leggo mai libri nuovi, ma cose completamente diverse dai romanzi. Conta molto ciò che ho letto sui giornali o un’espressione sentita da una persona. Molte volte mi viene in mente la figura di un personaggio e poi decido che cosa fargli fare. Scrivere un romanzo è un po’ come giocare a fare Dio, puoi fargli accadere quello che vuoi, renderlo felice oppure no. In genere sono più attratta dagli eventi tristi e tragici, soprattutto quelli che potrebbero essere evitati, e dalle condizioni difficili, di povertà.

Lei è ottimista o pessimista sullo stato della società?
A volte sono ottimista, a volte pessimista. Diciamo che sono un’ottimista con una vena di realismo. Cerco di guardare sempre al lato positivo delle cose.

Always look on the bright side of life...
Sì, come cantano in Brian di Nazareth dei Monty Python! Mi viene in mente una mia amica molto religiosa a cui il figlio, per farle uno scherzo, ha messo il DVD di Brian nella custodia di La passione di Cristo...
Ai miei personaggi succedono cose che schiacciano l’ottimismo, ma la cosa importante da considerare nella vita, secondo me, è che la felicità è uno stato d’animo. Molte persone ne vanno alla ricerca tutta la vita senza rendersi conto che in realtà è sempre stata lì vicino. Questo avviene anche perché la nostra società, con le pubblicità per esempio, ci bombarda di messaggi su cosa dobbiamo avere e fare per essere felici, mentre spesso lo siamo veramente quando facciamo le cose più semplici con le persone che amiamo. Io nella mia vita ho avuto un grande successo, ho ottenuto molto, ma ho perso i miei genitori quando avevo ventuno anni e non ho mai avuto modo di apprezzarli perché ero troppo giovane... A quell’età non si capiscono e apprezzano davvero i propri genitori.

Quali altri libri consiglierebbe a chi ha amato Io lo so?
Direi Faceless, la cui protagonista, Marie Carter, esce di prigione dopo dodici anni. È stata incarcerata per avere ucciso due amiche in modo molto stupido, in preda all’alcool, quando era molto giovane. Quando noi la conosciamo, appena uscita di prigione, è diventata una persona diversa, quella che sarebbe potuta diventare se fosse nata e cresciuta in un altro ambiente. Negli anni di detenzione non ha avuto visitatori, né amici né familiari; quando torna in libertà va a cercare le sue due figlie e si ricostruisce una vita, cercando di non ricadere negli stessi errori. Trova le figlie e scopre che una sta riprecorrendo le sue stesse orme. Noi scopriamo attraverso gli occhi della madre, che osserva la vita della figlia, come era stata la sua stessa vita da giovane. È un libro molto forte, che in Inghilterra i genitori consigliano alle figlie per metterle in guardia dai pericoli che corrono. Un’altra cosa interessante è che la figlia di Marie ha una figlia a sua volta, e le due donne cercano di interrompere questo ciclo. Come tutti i miei libri, anche questo non è per i deboli di cuore. Ha comunque un finale semi-lieto.
Tutti i miei libri parlano di questioni con forte carica emotiva. Un altro è Two Women e parla di violenze domestiche, di come una donna arrivi ad ammazzare il marito. In seguito alla pubblicazione di questo libro sono stata coinvolta nel finanziamento di case di accoglienza per chi ha subìto violenze simili.
CHARLOTTE LINK:
LA CRISI NELL’ESISTENZA

Charlotte Link è un’autrice tra le più amate e seguite in Germania: a quarantadue anni vanta già una nutrita produzione di best-seller e una schiera di lettori appassionati. Se in Italia è conosciuta per i suoi avvincenti mystery, le sue origini come scrittrice sono però da ricercare nel romanzo storico, genere in cui si cimentò per la prima volta a soli sedici anni. È nel 1997, dopo la conclusione di una trilogia ambientata nella Germania dell’Ottocento, che avviene la svolta, con La casa delle sorelle. Una svolta che investe non solo il piano cronologico, ma anche le coordinate di ambientazione e di genere: è infatti il primo romanzo in cui la Link affronta il tempo presente, un’ambientazione “esotica” come l’Inghilterra, e il mystery. Il romanzo ha un successo notevole in patria, bissato dalla buona accoglienza nel nostro paese, e apre le porte ai romanzi che verranno: gialli atipici, il cui interesse principale risiede nelle dinamiche psicologiche dei personaggi, persone comuni alle prese con amori,relazioni fallite, tradimenti e, naturalmente, con il proprio lato oscuro. Tra i successi dell’autrice, ricordiamo La donna delle rose, L’uomo che amava troppo, Alla fine del silenzio.
Ho incontrato Charlotte Link all’Hotel Manin di Milano, in occasione della presentazione italiana del suo ultimo lavoro, La doppia vita, alle soglie dell’estate di quest’anno.

L’aspetto più notevole de La doppia vita è che tutti i (molti) personaggi hanno situazioni difficili da affrontare nella vita di relazione. L’intreccio giallo si innesta su una trama realistica di vita vissuta. Sia gli uomini che le donne hanno dei problemi con i rispettivi partner, amanti, o con l’assenza di essi. Si va dalla normalità, all’eccezionalità al puramente patologico, come nel caso della donna sfigurata dall’acne. Quello che colpisce alla fine del romanzo è che, in ogni caso, le vite di tutti subiscono uno stravolgimento, e non è detto che questo sia sempre senza lati positivi. Perché dunque l’attenzione per questo tipo di evoluzione della coppia, nonché della vita delle persone in generale?
Cerco sempre di mettere i miei personaggi in una situazione generale di crisi, crisi che può essere nella coppia, nel lavoro, o dovuta a una malattia; si tratta comunque di un momento specifico che fa vacillare la vita dai suoi normali binari, e in cui i meccanismi di difesa vengono meno, non funzionano più. È qua, dunque, che lo scrittore si inserisce per trovare il cuore dei personaggi. Il momento di crisi mette in luce non solo le nostre debolezze, ma anche, in qualche modo, consente una certa libertà, ed è per questo che rappresenta sempre un evento molto interessante da analizzare.

A quanto pare molti elementi delle sue storie si riallacciano al romanzo ottocentesco: il legame con il passato, i segreti che riaffiorano, i rapporti umani burrascosi, le passioni, le ambientazioni esotiche e piene di atmosfera, prima l’Inghilterra, poi la Francia. Si sente in qualche modo legata a una tradizione un po’ rétro che prende le mosse da quella letteratura, dal romanzo di genere, dal gotico? Quali sono le sue letture preferite e le maggiori influenze?
Sì, direi che ho un modo molto conservatore di scrivere e penso di essere prossima alla tradizione letteraria del Diciannovesimo secolo. Leggo soprattutto letteratura britannica, thriller, romanzi in genere ma ancora di più mi dedico alla lettura della narrativa scandinava, che da noi è diventata molto popolare in questi ultimi anni. Questo di sicuro ha influenzato il mio modo di scrivere. Ho sempre però una vera passione per le biografie storiche, ne leggo molte.

Lei è partita dal romanzo puramente storico per poi scriverne tanti che svelavano un legame, nello sviluppo della storia, tra alcuni avvenimenti passati e il presente. Ora è approdata a un romanzo che è ambientato interamente ai giorni nostri e in cui non prende più in considerazione periodi passati. Vorrei sapere se c’è un’epoca in cui si sente maggiormente a suo agio come scrittrice.
Adesso come adesso, preferisco decisamente le storie che si svolgono nella nostra epoca, mentre all’inizio scrivevo soltanto romanzi storici, ambientati prevalentemente nel Seicento e Settecento europei. Credo tuttavia che potrei cambiare ancora, tornando al romanzo storico, ma a un certo punto ho preferito cambiare per non rimanere incollata a quel genere, ho deciso di virare...

Come viene percepito il romanzo giallo nel suo paese, la Germania? Viene ancora relegato alla letteratura minore o gode di un certo prestigio “letterario”? Com’è il rapporto con i suoi lettori in quanto autrice di gialli?
Direi che in Germania il thriller va per la maggiore, è molto trendy, non solo fa tendenza ma attira un pubblico davvero vastissimo. Per quanto riguarda il mio personale rapporto con i lettori, è un rapporto che si è consolidato nel tempo, fin da quando scrivevo i romanzi storici. Adesso sono arrivata al punto che non mi chiedono più il romanzo storico, ma accettano quello che io decido di scrivere, indipendentemente dal genere. Il mio contatto con il pubblico si svolge anche in maniera epistolare e questo mi consente di mantenere un rapporto diretto e intenso con i miei lettori.

[La mia prima intervista, e si vede: domande troppo verbose!]
Simone Greco
Fra' Diavolo. L'estetica della guerriglia
Bevivino, 10 euro

La figura leggendaria di Fra' Diavolo mi è nota da ben prima che potessi sentire il suo nome in una lezione di storia: ricordo mio nonno, anni fa, raccontarmi delle imprese del brigante suo compaesano. Entrambi erano originari di Itri, e non solo: i Cardi, miei avi, erano una delle famiglie presso cui Fra' Diavolo era solito radunarsi con i suoi uomini.
Ha attraversato ormai due secoli la fama di Michele Pezza, diventato quasi per caso un assassino, e per vocazione guerrigliero in difesa dei regnanti Borboni contro l'invasore francese, dalle soglie del XIX secolo in poi, per sette, gloriosi anni. Non sembra mai venir meno il piacere della narrazione, di raccontare e far rivivere fatti vissuti, e poco importa se sono distorti dalla leggenda: è pur sempre un modo per gli esseri umani di parlare di se stessi e di ciò che sta loro a cuore.
È questo piacere che anima la collana di originale concezione "Wanted", in cui l'editore Bevivino raccoglie storie che provengono dall'immaginario collettivo, nate di recente (come le imprese della banda della Uno bianca raccontate nel primo volume pubblicato – cfr. "M- Rivista del Mistero" n. 15), oppure risalenti a epoche lontane come quella del brigante di Itri. A corredare la narrazione è l'illustrazione a fumetti di uno degli episodi più coloriti del racconto. Simone Greco, autore di Fra' Diavolo, si basa su una ricca documentazione, ma il suo libro è lontano dall'essere un saggio, e contemporaneamente prende le distanze dall'aneddotica pura. In un volume di agile lettura, poco più di cento pagine, tratteggia un ritratto appassionante di Michele Pezza come uomo e come incarnazione di valori sociali e politici. Il suo fascino del male gli derivava dal rappresentare ciò che né l'inefficiente re di Napoli né il popolo mediocre avrebbero potuto mai sognare di essere: un eroe disposto al sacrificio di sé per la difesa della propria terra, una personalità sanguigna e determinata, del cui carisma erano prova sia il grande seguito ottenuto nelle campagne, dove egli raccoglieva le proprie squadre di guerriglieri, sia l'aura quasi soprannaturale che circondava la sua figura. Un uomo pronto a punire i francesi per il loro ateismo, sebbene con metodi molto distanti da qualsiasi etica cristiana...
Il popolo, quel popolo che Fra' Diavolo, a fasi alterne acclamato e abbandonato, disprezzava in quanto "si piegava a ogni soffio del vento", sembra essere il vero narratore del racconto. All'asciuttezza del cronachista, Greco riesce a unire una particolare cadenza che riproduce, con le sue espressioni desuete o colloquiali e le sue ripetizioni, la voce di chi delle imprese del brigante fu testimone diretto o, più spesso, per sentito dire. Come un moderno cantastorie.
Paola Barbato
Bilico
Rizzoli euro 17,00

Thriller di ambientazione americana con c0mplessi di inferiorità rispetto a quelli “veri”. Storie di polizia bonaria all’italiana, disturbanti come una pizza margherita. Bilico, per fortuna, è distante anni luce dagli uni e dalle altre. Nello sconvolgente romanzo d’esordio della Barbato, già sceneggiatrice di Dylan Dog, l’anatomo-patologa e psichiatra Giuditta Licari indaga su un efferato serial killer che apparentemente sceglie le sue vittime a caso. Nessuno è all’altezza della genialità della dottoressa, personalità dominata da una profonda curiosità verso gli altri esseri umani, eppure gelida nel suo distacco analitico. Nessuno ne è all’altezza tranne l’assassino, che ingaggia una lotta a distanza con Giuditta, riuscendo a coinvolgerla anche sul piano personale.
L’autrice prende dichiaratamente le distanze dalle eroine belle e idealizzate delle serie televisive statunitensi: la sua protagonista è una donna dall’aspetto scialbo, preparatissima e metodica, che gli altri giudicano solida e prevedibile. È la sua vita privata a rivelarsi, ma solo al lettore, piena di ombre. La Barbato snobba altresì le soluzioni di comodo dei “romanzacci di serie B” e costruisce un elaborato marchingegno narrativo davvero sorprendente, che non lascia scampo al lettore e, seducendolo con le lusinghe di una storia larger than life, lo coinvolge in situazioni agghiaccianti che lasciano un retrogusto amaro di reale. La sua forza sta nel non arretrare mai davanti agli eccessi del male. Alla domanda “chi sono i mostri?” risponde tratteggiando un’umanità di varia natura ma tutta ugualmente ambigua: nessuno si salva.
Bilico, come le migliori storie “nere”, indaga il lato non solo oscuro, ma inconoscibile dell’animo umano, in cui albergano impulsi e desideri insieme a qualcosa di più inquietante ancora: il nulla.

Monday, January 22, 2007

Stephen King
La storia di Lisey
traduzione di Tullio Dobner
Sperling & Kupfer
pagg 620, € 18,00

La storia di Lisey è, nella ormai sterminata produzione kinghiana, un’opera di conferme: chi ama lo scrittore del Maine vi ritroverà alcune delle sue tematiche fondanti; chi è convinto che il suo maggior pregio stia nell’umanità dei personaggi ancora prima che nelle invenzioni orrorifiche leggerà il romanzo con piacere, e chi l’ha sempre criticato per i suoi eccessi sarà ugualmente accontentato.
Nonostante lo stesso King sottolinei al lettore che la protagonista, moglie di un autore di best-seller deceduto, Scott Landon, non è un alter ego di Tabitha, la propria consorte, è impossibile non leggere la storia come un affettuoso omaggio alla donna che da anni vive all’ombra dello Scrittore Venerato e il cui ruolo nella sua vicenda personale è invisibile al lettore. In Lisey compare anche, come già in Misery, il tipico fan la cui adorazione sconfina nel delirio, ed è il motore della storia, in uno spunto peraltro un po’ pretestuoso. Il tema portante del romanzo è proprio la follia, che prende varie forme: il demone radicato nella storia familiare di Scott, l’alienazione di Amanda, sorella di Lisey, il fanatismo e il feticismo intellettuale. Alla scrittura, e all’amore, viene attribuito l’unico potere salvifico in grado di contrastarla.
Come nel più classico King, il lato oscuro si materializza, stavolta non in una metà oscura, ma in un intero mondo parallelo che è il rifugio, non solo metaforico ma addirittura fisico e tangibile, di Scott. Un luogo di grande bellezza ma che, in quanto proiezione della mente, diventa pericoloso quando cala il buio... Qui Lisey dovrà seguire le tracce lasciate dal marito defunto per scrivere l’ultima parola della propria storia.
L’eccesso tipico di King rende imperfetto il romanzo, che non manca di tempi morti e che spesso sfiora il kitsch (il ricorrente linguaggio privato di Scott e Lisey risulta imbarazzante). Ma è un eccesso che deriva dalla generosità dello scrittore, il quale nei romanzi dà, e non è un luogo comune, tutto se stesso, rendendoci voyeur di un processo creativo che consente reinterpretazioni ma non finzioni.
Mitch Cullin
Tideland
traduzione di Stefano Tummolini
Fazi
pagine 234, euro 14,50

Non si fatica a capire che cosa abbia colpito Terry Gilliam di questo formidabile romanzo dello statunitense Cullin tanto da trarne il suo ultimo film: il visionario regista fu-Monty Python abbraccia da sempre una poetica del mondo filtrata da occhi infantili e visioni iperboliche e orrorifiche. Occhi e visioni che, lungi dall’edulcorare la realtà, la reinterpretano con nuove chiavi di lettura.
La realtà narrata in Tideland è più che tetra: Jeliza-Rose, undicenne figlia di una rockstar in declino, si trova sola, dopo la morte per overdose di entrambi i genitori, in una casa colonica in mezzo ai campi di grano del Texas. In attesa di un impossibile risveglio del padre, la piccola vaga per i dintorni insieme alle sue uniche amiche, delle teste di bambola cui dà voce e personalità, e fa la conoscenza di due personaggi inquietanti, un’apicultrice che lei crede una strega – e gli eventi sembreranno darle ragione – e suo fratello ritardato, con cui scambia i primi baci. “Tideland” è il regno delle maree, il mondo sottomarino dove Jeliza-Rose e il ragazzo, Dell, trovano rifugio da una realtà che li schiaccia e nega loro un’affettività vera. Un mondo capovolto, come lo scuolabus rovesciato dove la ragazzina immagina le voci di compagni di scuola che non ha mai avuto.
La scrittura visionaria e vivida di Cullin, che narrando in prima persona dà vita a una Jeliza-Rose iperrealista, non risparmia al lettore nessun orrore né invenzione allucinante, in una favola più che mai oscura e opprimente. Ma a dominare su tutto è una profonda, straziante tristezza. Solo un evento eclatante e catartico, forse, potrà infine aprire uno spiraglio nella vita della ragazzina, una breccia che la potrà portare alla consapevolezza della realtà e alla maturità.
Adesso attendiamo solo di vedere la trasposizione filmica di Gilliam che, penalizzata dalla distribuzione, non ha ancora una data di uscita ufficiale in Italia. [aggiornamento: aprile 2007 :-)]
Monica Ali
Alentejo blu
Pagg. 255, EURO 15,00
Tropea

Mamarrosa è un villaggio del Portogallo di quelli che si definiscono “fermi nel tempo”. In Alentejo blu, secondo romanzo di Monica Ali dopo Sette mari e tredici fiumi, esso è teatro dei tormenti esistenziali di personaggi diversi, separati da età, provenienza, esperienze. Dalla giovane Teresa, desiderosa di cambiare vita a Londra, ai locali, depositari della memoria storica del posto, alla coppia di turisti in crisi prima del matrimonio, fino alla famiglia disfunzionale inglese e allo scrittore straniero in cerca di nuova ispirazione, tutti lottano per uscire da una situazione di stasi che sembra di respirare attraverso l’aria del posto. Gli abitanti del villaggio attendono il ritorno di Marco Alfonso Rodrigues, una figura mitizzata, che ha lasciato Mamarrosa da anni e si dice abbia fatto fortuna. Il suo arrivo coincide con una festa che riunirà per un po’ tutti i protagonisti e le loro storie: una conclusione non risolutiva, una mancata catarsi, un anti-climax. Di Marco Afonso non si saprà molto più di prima e la funzione del suo personaggio appare debole e poco chiara.
All’inizio del romanzo, con l’evocazione degli orrori della dittatura di Salazar, fa capolino la Storia con la S maiuscola, ma diventa ben presto chiaro che il vero interesse dell’autrice è rivolto alle storie individuali, ognuna con il proprio carico di ennui, con il proprio fardello sulle spalle. Monica Ali è un’attenta osservatrice: i suoi personaggi ingaggiano dialoghi dal sapore di vita vissuta, e di ciascuno coglie peculiarità e tic. E’ una scrittura precisa, colta, ma eccessivamente auto-consapevole e distaccata, che stenta a coinvolgere davvero il lettore. Molte sono le frasi tagliate come aforismi, che suscitano ammirazione per il loro acume, molte le ellissi utilizzate ad arte, con pudore. Un dipinto vivido ma che non resta nel profondo.

Sara Gran
La voce dentro
trad. Eva Kampmann
pagg 168
Longanesi

Amanda è un giovane architetto in ascesa, sposata a un uomo bello e fine che le dà la stabilità che le mancava. Ha coronato il suo sogno personale di farsi la casa su misura: un loft in un palazzo centenario e semi-deserto, che ha comprato a poco prezzo e ristrutturato con zelo. È lì che inizia a frantumarsi il sogno di questa vita perfetta e promettente, quando lei e il marito vengono perseguitati da un ticchettio che risuona per tutto l’appartamento. Da lì in poi, le stranezze si moltiplicano e per Amanda comincia un personale incubo senza via d’uscita. Voci interiori mai udite prima, sogni troppo realistici, strani incontri e coincidenze, e libri sulla possessione demoniaca che apparentemente per caso si materializzano davanti a lei... Amanda viene spinta alla dissolutezza e al male. Potrebbe – e vorrebbe– essere pazza, ma la spiegazione peggiore sembra anche la più plausibile. La mitica seconda sposa di Adamo, Naama, sembra essersi incarnata in lei.
Fin dalla prima pagina, il demone si manifesta come la parte più istintiva e non repressa di Amanda, incurante di formalità, istituzioni e convenzioni sociali e interessata solo a soddisfare i propri impulsi. Crolla inesorabile anche la visione che la donna ha del marito, di cui inizia a vedere con amara lucidità difetti e comportamenti irritanti. In lei si innesca una lotta tra la sua personalità di sempre e la bestialità di Naama, che le promette un immenso potere in cambio di un legame perverso e inscindibile, e che rappresenta la forza di una femminilità minacciosa.
Sara Gran, autrice statunitense appassionata di testi rari sull’occulto, imbastisce una storia che cattura da subito, inesorabile e credibile, che sembra appartenere più al campo del disturbante psicologico che del gotico, nonostante la sua impostazione la riconduca allo stesso genere di un classico come Rosemary’s Baby – e in questa discendenza troppo diretta sta forse l’unica pecca del romanzo. Resta impressa, insieme al tour de force narrativo, la formidabile immagine dell’amica immaginaria dell’Amanda bambina.
Kenneth J. Harvey
La città che dimenticò di respirare
Einaudi, pp. 529
€ 11,55

Da qualche decennio, nel mondo arido e frettoloso in cui viviamo, la ricerca di un senso innato alle cose prende strade diverse. Nel campo della letteratura tocca al genere fantastico incaricarsi di recuperare quel senso del magico che sembra essere perduto, e che è all’origine dell’attività stessa del raccontare, allo scopo di dare un significato, anche irrazionale, agli eventi.
Il romanzo del canadese Harvey si inserisce nel filone paranormale che ha reso celebri scrittori come il nipponico Koji Suzuki, autore di Ring e Dark Water, con relativi adattamenti al cinema. La città... presenta componenti comuni: la forza degli elementi, il diffondersi di un male oscuro, la sensibilità dei bambini e delle anime semplici, il passato che ritorna.
Esso narra di una strana sindrome respiratoria che improvvisamente coglie gli abitanti di un piccolo villaggio dell’isola di Terranova. Joseph, padre separato, e la figlioletta Robin, che vi trascorrono le vacanze estive, fanno strani incontri, mentre la bambina realizza disegni premonitori di eventi inquietanti. Calamari giganti e squali albini compaiono dal mare, insieme a una serie di cadaveri di persone annegate da anni, se non da secoli. Oltre al respiro, le persone colpite sembrano perdere il senso della propria identità. Ci si rende conto che le cose vanno male da quando il villaggio non vive più della pesca del merluzzo e, invece, la tecnologia ha iniziato a predominare nella vita dei suoi abitanti.
Alla fine del romanzo appare chiaro che il messaggio, non certo nuovo, sia proprio questo: perdere contatto con la natura, nonché con la propria natura di uomini, rende fragili le persone distaccandole dalle proprie radici e dai sentimenti più veri. La storia, all’inizio intrigante, si perde poi tra troppi spaventi, stupori e metafore, lasciando l’impressione che l’autore abbia voluto strafare senza riuscire a dare vita a quell’afflato meraviglioso e magico che evidentemente ricercava.
Kazuo Ishiguro
Non lasciarmi
Einaudi, pp. 291
€ 17,50

Kathy, Tommy e Ruth: memorie di un’infanzia passata insieme. Un collegio esclusivo, prati verdi, bullismo e amicizia, tradizioni e autorità, sogni e speranze. Sembrerebbe un racconto di formazione di stampo inglese come altri, ma è qualcosa di nettamente diverso: quasi una storia di corpi alieni trapiantati nella società. Kazuo Ishiguro non è nuovo a storie crudeli e struggenti, come il suo celebre Quel che resta del giorno, ma in questo magnifico romanzo trova un modo originale di raccontare la ricerca di una identità e di un futuro, e al contempo l’impossibilità della speranza. Il suo tono è segnato dal peggior tipo di nostalgia possibile: quella che si prova per ciò che non si è mai avuto.
Ishiguro si insinua nel solco della tradizione intimista inglese, con un passo deliberatamente cauto, in apparenza lieve. Assume il punto di vista di chi è dentro le mura di una speciale prigione dorata e molto gradualmente fornisce gli indizi per costruire il quadro complessivo: questa è la sua crudeltà di autore, che non lascia scampo né ai suoi personaggi, né al lettore che segue le loro vicende e ne rimane avvinto. Non lasciarmi (un titolo perfettamente vago e neutro che non indica la collocazione del libro in un genere) racconta vite che sono in realtà soltanto una collezione di attimi concessi pietosamente da dèi imperfetti.
E’ la storia di un destino impietoso e da cui non ci si può ribellare. Ma perché? Se conoscere la verità equivale a poter scegliere, perché i protagonisti sembrano rinunciare a questa libertà? Questo, al di là del percorso di indizi e false piste, è il vero mistero del romanzo, di questi personaggi così dolorosamente simili a noi e nello stesso tempo non veramente conoscibili. Torna alla memoria Mr Stevens, il maggiordomo del più celebre libro di Ishiguro sopra menzionato, con la sua dedizione apparentemente cieca...
Octavia E. Butler
La parabola del seminatore
EURO 16,00, 344 p.
Fanucci

Ambientato nel futuro prossimo in una California segnata dal degrado di uomini e strutture, La parabola del seminatore è il diario della giovane Lauren, figlia di un predicatore che vive in una enclave protetta dagli assalti di poveri disperati e di drogati piromani. Dotata di una sindrome di iper-empatia che la porta a condividere il dolore altrui, la ragazza studia il modo per andarsene dal suo microcosmo precariamente protetto e dalle riflessioni che ha raccolto in anni trae gli spunti per fondare una nuova religione, detta Il Seme della Terra.
Si tratta di un romanzo di fantascienza anomalo, che parla di scenari amaramente plausibili, in cui un eccesso di protezione rappresenta l'unico modo di sopravvivere e, al contempo, la negazione dell'umanità e della libertà individuale. L'essere umano, spogliato delle sovrastrutture solite, si mostra senza maschera: al suo peggio, isolato dai suoi simili e capace di bestialità, o al suo meglio, potenzialmente invincibile quando è portato a riscoprire la solidarietà e l ingegno.
Lontano dalle vaghezze New Age, il Seme della Terra è più una filosofia che una religione, poiché non contempla dèi o entità soprannaturali più grandi di noi: "Dio" è l'idea del cambiamento e del plasmare la propria realtà giorno per giorno. Per Lauren non c'è distinzione tra questioni pratiche ed elevazione spirituale, con un pragmatismo molto americano (e in odore di zen). Dalle ceneri di una società che va letteralmente in fumo (è forte nel romanzo la imagery legata agli elementi, come al paesaggio) potrà sorgerne una nuova e più solida. Crolla anche la struttura consumistica, al centro di tutto è di nuovo l'uomo, mentre gli oggetti ritornano a essere meri strumenti con una funzione.
Un romanzo non del tutto originale e a tratti didascalico, ma affascinante e appassionante, da una signora della fantascienza statunitense.
JOYCE CAROL OATES
Storie americane
Tropea, pp. 512, €18
Traduzione di Lucia Fochi e Isabella Zani

Una straordinaria pubblicazione, Storie americane: un'occasione per il lettore di scoprire una scrittrice tra le migliori contemporanee in una delle forme che le sono più congeniali. Nota per i suoi romanzi-fiume, Joyce Carol Oates nasce però come autrice di racconti (ammontano a circa quattrocento) in cui si è allenata a tratteggiare minuziosi ritratti psicologici, femminili ma non solo, immergendoli in un contesto sociale e storico che fa da sfondo alle storie e ne è insieme protagonista. Racconti incentrati su dettagli illuminanti e momenti rivelatori, con uno stile che ha da insegnare a chiunque voglia imparare a scrivere narrativa.
Si tratta di un'opera preziosa in quanto la Oates ne è sia autrice che editor: i brani sono stati da lei stessa selezionati per rappresentare i suoi primi vent'anni di produzione (negli anni Sessanta e Settanta) nonché una sorta di autobiografia letteraria. Sono ventisette storie di grande freschezza e insieme già cariche del mistero e della tensione che animano i suoi libri successivi. Emerge con chiarezza come sia fondante il tema della violenza: violenza come manifestazione esteriore delle passioni e pulsioni umane, del lato oscuro che soggiace alla personalità di ogni essere umano. La violenza è inestricabile dal sentimento amoroso (e ben due racconti hanno nel titolo "amore" e "morte" insieme) e dai giochi di potere in corso tra uomini e donne, ed è fisica e palpabile nei racconti che esplorano questioni razziali.
Protagonisti di buona parte delle storie sono volti e corpi di giovani donne (come sarà poi in Foxfire, romanzo su una gang di ragazze): la femminilità e la giovinezza sono viste dall'autrice come forze a se stanti, che rivendicano il proprio elusivo ma dirompente potere e una posizione nel mondo che viene spesso negata o ristretta. Temi che fanno apparire Joyce Carol Oates come una scrittrice femminista, nel senso meno banale del termine. Toccherà nel 2000 a Blonde, biografia romanzata della diva del cinema per eccellenza, condensare le più profonde riflessioni della narratrice americana sull'identità femminile.
DORIS LESSING
La storia del generale Dann, della figlia di Mara, di Griot e del cane delle nevi
Fanucci, pp. 240, € 16
Traduzione di Simona Fefè

Con questo romanzo Doris Lessing torna a esplorare le collisioni tra ciò che è stato e ciò che è possibile. Da decenni la grande autrice di famiglia inglese ma cresciuta in Rodesia ha affiancato alle storie di impianto realistico una produzione non mimetica e prossima al fantasy. Mentre in una delle sue più belle storie, Il quinto figlio, l’elemento fantastico appariva inaspettatamente in un contesto quotidiano, il principale interesse de La storia del generale Dann... sta nella alterità del mondo in cui si svolgono le vicende. Più delle avventure dei protagonisti conta l’ambientazione. Ifrik (l’ex-Africa) è una tabula rasa su cui la Lessing disegna le avventure della nuova umanità, in un futuro imprecisato, mentre si sciolgono i ghiacci della seconda era glaciale. E’ come una nuova preistoria, in cui la comunicazione di massa non è neanche un ricordo, le lingue straniere sono sconosciute quasi a tutti, le scienze scomparse. Il motivo è che non esiste più il sapere trasmesso dai libri, oggetti antichi di cui rimangono pochi esemplari sfuggiti alle acque e la cui scoperta ossessiona il protagonista. Dann è un novello Ulisse, esploratore inquieto, cantastorie, uomo dal fascino particolare, che torna a casa dopo anni di peregrinaggi per dare corpo a una nuova società.
Nel romanzo, appesantito da un ritmo monocorde, si sente la mancanza della parte fondante della storia (il precedente Mara e Dann, in cui i due protagonisti eponimi erano adolescenti). La Lessing narra attraverso lo sguardo ingenuo dei “futuri” e il chiarissimo messaggio che emerge è che non dobbiamo dare per scontato il valore del sapere a cui siamo giunti dopo millenni di progresso, e in particolare la capacità di accedere alla nostra memoria storica. Lodevole, ma si rimpiangono i complessi personaggi dei suoi romanzi più realistici, specchi limpidi delle contraddizioni della società di oggi e di ieri.
MICHAEL CONNELLY
Utente sconosciuto
Piemme, pp. 367, € 18,90
Traduzione di Gianna Lonza

Il bizzarro ma sensato percorso di una brillante carriera: Michael Connelly, ormai noto a livello mondiale come autore di thriller best-seller, nasce come giornalista di croncaca nera dopo essere stato folgorato dalla lettura della narrativa di Raymond Chandler. Può sembrare bizzarro, dicevo, ma non lo è: chi conosce la poetica chandleriana, sa che lo scopo del maestro dell’hardboiled era non tanto creare trame ingegnose che dimorassero in un universo meramente di fantasia, quanto riflettere proprio quella realtà sporca e imperfetta che macchiava le pagine dei quotidiani giorno dopo giorno.
Al reporter-scrittore Connelly, in verità, l’ingegno nel costruire storie complesse e un po’ improbabili non manca. Di quest’ultimo romanzo, indipendente dalla celebre serie sul detective Harry Bosch, è protagonista Henry Pierce, giovane scienziato nel campo delle più avveniristiche biotecnologie, che nella casa di cui ha appena preso possesso si ritrova assegnato un numero telefonico collegato, su un sito a luci rosse, a una splendida call girl. Al di là dell’irritazione per le chiamate e i messaggi che continua a ricevere, egli intuisce che qualcosa per la ragazza è andato storto e si fa coinvolgere in una vicenda intricata e più pericolosa del previsto. Everyday man coinvolto in una storia più grande di lui, come in un film di Hitchcock, Pierce è un eroe suo malgrado che esemplifica la poetica del suo creatore, il quale dichiara di avere come obiettivo “...una storia con un cuore, con al centro emozioni umane. È l’unico modo di reggere un’indagine su qualcosa che non vorrei sapere.” E in effetti, per il protagonista si tratta di scoperchiare un vaso di pandora e rivivere traumi passati e recenti, insieme alla scoperta di un mondo sordido di cui, chiuso com’era nel suo laboratorio di microscopica perfezione, non aveva nozione. Una storia dal meccanismo inarrestabile che appassiona il lettore trasportandolo in una realtà in cui l’ideale (gli obiettivi alti e “puri” della scienza) si scontra con la mera materialità (gli interessi finanziari che ruotano intorno al mondo scientifico, le ragazze ridotte a merce).
VENDELA VIDA
E adesso puoi andare
Mondadori, pp. 218, € 15
Traduzione di Maurizio Bartocci

Un'esordiente di lusso, Vendela Vida, dal nome esotico ma in realtà una perfetta statunitense, cresciuta tra San Francisco e la Grande Mela. Redattrice presso varie riviste e co-fondatrice della prestigiosa "The Believer", moglie di Dave Eggers e all'attivo un ponderoso saggio sui riti di iniziazione femminile, ha esordito a 31 anni con questo agile romanzo.
Anche al centro di questo libro vi è un rito di passaggio, seppure insolito e del tutto casuale. Nella vita di Ellis, studentessa ventunenne a New York, un giorno di dicembre si insinua il pericolo. Durante una passeggiata nel parco, la ragazza viene avvicinata da un aspirante suicida e minacciata con una pistola. Recita delle poesie per l'uomo, che improvvisamente e senza spiegazione desiste dal gesto e le dice "Adesso puoi andare". Da questo momento la sua vita di tutti i giorni si deve confrontare con il traumatico evento, che diventa di dominio pubblico. L'episodio iniziale, banalizzato, diventa un "caso" e tutti si sentono in dovere di offrire consigli e protezione a Ellis, che nel frattempo si trova a rivedere la propria vita familiare e sentimentale: vari personaggi bizzarri, il padre la cui assenza di quattro anni ha segnato la sua adolescenza, e soprattutto la madre e la sorella con cui riallaccia e approfondisce i rapporti, ricomponendo una ideale triade affettiva.
Ventuno anni di vita ancora aperta a mille possibilità vengono percorsi dall'autrice attraverso le piccole stravaganze di tutti i giorni, le sensazioni, i ricordi in una solo apparente casualità. La narrazione frammentaria è priva di drammaticità, tenera, un po' ripetitiva. Prevalgono annotazioni sulle reazioni psicosomatiche di Ellis, gli odori (quello naturale della madre è di cetriolo, il sentore dell'aglio è legato alla pistola dell'uomo del parco), le osservazioni buffe ("mia madre una volta mi disse che le scarpe sono una cosa di cui i bambini vanno molto fieri"). Uno sguardo acuto o maniera letteraria?
TIM WINTON
Dirt music
Fazi, pp. 416, € 16,50
Traduzione di Maurizio Bartocci

Si trovano magnifiche cose nei romanzi di Tim Winton. C’è un’Australia iperrealista e allucinata che sembra scottare sulla pagina, ardente e viva quanto i personaggi. Winton, scrittore che ha scelto di vivere in una delle zone più isolate della sua terra, all’asetticità della vita moderna non si rassegna, e manda i propri personaggi a cercare un senso del sacro e del bello al di là di qualsiasi apparenza e valore sociale. I suoi sono eroi ruvidi, segnati da eventi terribili, che solo temporaneamente accettano di lasciarsi anestetizzare. Tra Georgie, infermiera in crisi vocazionale, il marito Jim, venerato da un intero paese di pescatori, e il taciturno e misterioso Luther Fox si instaura un triangolo dalle insolite dinamiche, e segreti e legami antichi non mancheranno di venire alla luce.
La narrazione di Winton prende pieghe inaspettate, affronta temi esistenziali ma senza farlo pesare. E’ un viaggio agli estremi del mondo e di se stessi, in cui la redenzione e la rinascita passano anche attraverso la consumazione di sé sotto il sole, nell’acqua e nel vento, riducendosi a pura essenza. Filo conduttore attraverso l’intero romanzo è la musica, linguaggio primordiale ed espressione dell’ineffabile che Lu Fox riscoprirà mentre va incontro al proprio destino. E’ questa la dirt music del titolo, la melodia che risale attraverso le brutture e il fango.
Il romanzo potrebbe essere visto come una storia d’amore senza alcun interesse per il romanticismo convenzionale. Winton è bravissimo a mettere a nudo sentimenti e passioni nella loro crudezza. Maestro di uno stile che riesce a essere naturale ed essenziale e al contempo ricercato, un po’ come i suoi fascinosi personaggi, impressionanti per profondità e complessità. Onore a Fazi e alla sua collana “Le Strade”, sempre più ricca di ottimi nomi della narrativa di lingua inglese e non.
ANNELIES VERBEKE
Dormi!
Instar, pp. 151, € 13,80
Traduzione di Laura Pignatti

Olandese, classe 1976, Annelies Verbeke esordisce nella letteratura dopo un’esperienza come sceneggiatrice. La sua opera prima, acclamata in patria dove ha vinto un premio come miglior debutto del 2004, è un romanzo breve dal sapore intenso. La storia è quella di Maya e Benoit, una giovane donna e un uomo di mezz’età uniti dal medesimo problema: una perenne, invalidante insonnia che li porta a incontrarsi – è destino?, a capirsi al di là delle differenze, a perdersi e ritrovarsi e a sperimentare un insolito rapporto sentimentale. Forse. Nel frattempo, varie disavventure li porteranno ognuno per suo conto ad affrontare a viso aperto i propri fantasmi, per giungere a un capovolgimento delle rispettive vite.
L’invenzione principale della Verbeke è di scegliere un punto di vista particolare, quello dell’insonne, e di portarne fino in fondo le conseguenze. La vita quasi priva di sonno rappresenta il tormentoso ma prezioso accesso a zone inesplorate della coscienza e del mondo. All’inizio del romanzo, Maya, per noia e per spregio, riscopre la propria parte infantile suonando i campanelli delle case nel cuore della notte. Da qui in poi è un progressivo allontanarsi dalla luce del giorno, e della razionalità. Maya e Benoit verranno a contatto con le persone che vivono ai margini della società, facendo esperienza essi stessi della follia e della marginalità. E’ proprio in queste zone d’ombra che, secondo l’autrice, risiede l’essenza stessa dell’umanità.
Originale senza compiacersene e toccante senza sentimentalismi, Dormi! è un libro imprevedibile, divertente più che cupo, intriso di una ironia che è una vera e propria filosofia di vita, e di scrittura. L’autrice condivide con i suoi, evidentemente amati, personaggi la freschezza e la libertà di idee e di sentimenti. Una simbiosi che gioverebbe a tanti scrittori giovani (e non).
MICHAEL CHABON
Soluzione finale
Rizzoli, pp. 166, €12
Traduzione di Luciana Crepax

In questo romanzo ci sono un bambino e un vecchio, ma non c’è scontro generazionale, né un tenero rapporto in stile nonno-nipote o alcuna facile “soluzione finale” tra di loro. Il vecchio vive isolato, tenendosi ben lontano dagli orrori del secondo conflitto mondiale che impazza, è quasi spezzato dal peso dagli anni ma a mantenerlo vivo ha una intelligenza invincibile, quasi sovrumana. Potrebbe essere, intuiamo, il celebre Sherlock Holmes. Linus, il bambino, pur così giovane è già stato invece spezzato: dalla ferocia del nazismo, nella natia Germania. Ha perduto la propria famiglia e la patria, e lo shock gli ha tolto la capacità di parlare. Ha come unico amico un pappagallo che ripete in continuazione una misteriosa sequela di numeri. L’animale verrà rapito: chi è coinvolto, tra i personaggi che popolano la cittadina inglese dove Linus ha trovato ospitalità?
E’ un piccolo giallo, o un tipico romanzo con “pretesto giallo”, quello confezionato da Michael Chabon, che fa incontrare la storia reale con uno dei miti dell’immaginario collettivo, il detective che riesce a prevalere con la propria infallibile logica sul caos del mondo. Ma come appare chiaro all’investigatore da quando la vista di un bambino solitario lo fa uscire dal microcosmo della propria casa e dalla propria aurea indifferenza, “la verità esiste solo nella mente di chi la vuole trovare”.
Al di là della dimensione romanzesca e della sua narrazione volutamente composta ed elegante, da lettura d’altri tempi, Soluzione finale accenna a dilemmi che affondano le radici nel profondo della natura umana. E’ un romanzo popolato da personaggi afflitti dall’incapacità di comunicare e che soccombono sotto il peso dei drammi di ogni giorno. Costruito con estrema ingegnosità da un autore che, tuttavia, potrebbe tenere qualche lettore a distanza con un eccesso di consapevolezza.
GABRIEL GARCIA MARQUEZ
Memoria delle mie puttane tristi
Mondadori, pp. 141, €14
Traduzione di Angelo Morino

Un’altra truffa da parte dei colossi dell’editoria? Il formato dell’ultimo libro del premio Nobel colombiano parla da sé: dimensioni all’osso e caratteri enormi per confezionare qualcosa che assomigli a un bell’hardback e non troppo a un libello e venderlo a 14 euro. Risultato: sembra un libro-bonsai.
Il romanzo in sé è la storia di un giornalista senza qualità e senza amore, da sempre dedito al sesso mercenario, che per celebrare il compimento dei novant’anni decide di regalarsi una notte con una vergine. L’incontro non va secondo copione e l’anziano uomo scopre per la prima volta un sentimento d’amore, per la ragazza e insieme per la giovinezza lontana e dimenticata. Inaspettatamente, la sua vita rifiorisce quando dovrebbe iniziarne il declino.
Da Garcia Marquez non ci si può aspettare un libro mal scritto, e infatti a salvare Memoria è la maestria dell’autore, che ne fa una lettura abbastanza piacevole, condita dalla discreta autoironia con cui il vecchio narratore racconta la strana condizione di vivere in una società di cui si è ormai l’elemento più anziano. Il romanzo sconta però la mancanza di originalità della storia, non compensata da una forte intensità di sentimenti e sensazioni. Altro non è che una fantasia autoindulgente su una giovane che come personaggio in sé non ha peso: esiste solo la visione di lei attraverso gli occhi dell’uomo, egoisticamente. Non è un caso che l’oggetto del suo desiderio sia visto prevalentemente nei momenti in cui è addormentato e passivo. Si sospetta che la stessa autoindulgenza appartenga al celebrato scrittore, che attraverso la voce narrante dell’anonimo protagonista racconta in prima persona il proprio desiderio di vitalità nel momento in cui è anziano e minato dalla malattia. Nonostante il titolo e un linguaggio esplicito, nel romanzo c’è in realtà poco di provocatorio o scomodo.
EUDORA WELTY
La figlia dell’ottimista
Fazi, pp. 187, €13,50
Traduzione di Isabella Zani

America degli anni Cinquanta: da una accogliente cittadina del Mississippi un anziano giudice va a farsi operare agli occhi a New Orleans, dove viene raggiunto dalla figlia Laurel, vedova di guerra, che veglia su di lui insieme alla matrigna Fay, una texana volgare ed egoista. Nonostante il buon esito dell’operazione, la convalescenza dell’uomo sembra protrarsi all’infinito, finché egli non si lascia passivamente morire. Il ritorno della salma al paese natio per il funerale è l’occasione di incontro e scontro tra Laurel, attorniata dalla sua gente, e Fay e la sua rozza famiglia.
Che cosa ha portato il giudice a sposare la quarantenne Fay, così diversa dalla donna che aveva precedentemente amato, la defunta madre di Laurel? Il romanzo è un quieto ma inesorabile dispiegarsi di rivelazioni. A mano a mano che Laurel ripercorre con la memoria il suo passato, emergono i tasselli che ricompongono il quadro di un’intera vita, familiare e individuale, mentre il conflitto tra diverse personalità e modi di vivere esplode in tutta la sua asprezza.
Lo stile della Welty, celebrata narratrice americana, è un naturalismo pacato ma penetrante; ha un formidabile occhio per le scene di vita quotidiana, che si animano davanti agli occhi del lettore. Non si tratta però di una forma di minimalismo distante: mentre Laurel scopre i “segreti” delle persone che ha amato, l’apparente casualità iniziale lascia il posto a uno struggente climax emotivo tutto interiore e a una rivelazione sul senso degli eventi vissuti e della memoria. Unica pecca veniale, qualche metafora – la perdita della vista, l’uccello in trappola – che appesantisce la fluidità della narrazione.
E’ un’opera di grande maturità, in cui l’autrice si rifà a eventi dolorosi della propria biografia, e che le valse un premio Pulitzer. Un’altra valida narratrice tra le nutrite fila di Fazi (da Tim Winton a Colm Tóibín a Hubert Selby Jr).
MARTIN MILLAR
Fate a New York
Lain, pp. 268, €12,50
Traduzione di Lucia Olivieri

Martin Millar è un eclettico personaggio di culto della scena underground inglese: appassionato di musica rock e del mondo greco, di Jane Austen e di Buffy l’ammazzavampiri, autore di narrativa e di fumetti quanto di un originale adattamento teatrale di Emma.
Nel romanzo che l’ha reso celebre, The Good Fairies of New York, il setting urbano che fa da sfondo a tante sue storie si trova a ospitare delle singolari creature, delle fate ribelli giunte dalla natia Scozia e intenzionate a dare vita a un gruppo che suoni il punk in chiave celtica. New York, vista dai loro occhi puri, è un luogo pieno di cose sorprendenti ma anche terribili: non si spiegano perché nessuno aiuti i barboni che continuano a morire per le strade o che cosa spinga la gente a odiarsi se di pelle di colore diverso. Fanno la conoscenza di una graziosa artista malata cronica e di un pessimo violinista dal caratteraccio, insieme a tanti altri stravaganti personaggi dei poveri sobborghi della Grande Mela. Le vite di tutti usciranno cambiate dalla girandola di avventure in cui le fate li trascineranno, fino a un finale da vera favola.
Il romanzo di Millar è ambientato in un mondo di emarginati in perenne lotta con la miseria e la follia ma che affrontano la realtà con vitalità, arricchendola con l’arte e la musica. Un’atmosfera bohémienne congeniale alle fate, le quali portano con sé una totale mancanza di inibizioni, tabù e pregiudizi e la determinazione di riparare ai torti di una società spietata.
E’ un libro intriso di una colorata e allegra anarchia che richiama gli anni Settanta; la favola si sposa a un realismo talvolta abbastanza crudo, ma nel complesso troppo naif e poco incisivo. Pesa soprattutto sul romanzo il sospetto che dietro alla bizzarria non ci sia una vera originalità. Leggero e veloce, perfetto per chi ama la meraviglie arbitrarie del fantasy ma stancante per altri.
Il sito personale dell’autore è www.martinmillar.com .
DAVID SCHICKLER
Baciarsi a Manhattan
Einaudi, pp. 280, €14,00
Traduzione di Giuseppe Strazzeri

Qualsiasi cosa significhi il termine, la newyorkesità esiste. Celebri libri, film, serial televisivi ne sono impregnati: non può essere descritta, ma il suo luccichio è inconfondibile.
Ne sono pervasi anche i racconti di Baciarsi a Manhattan, undici storie unite da tanti fil rouge che si svelano a mano, a mano che la lettura procede. Sono psicopatologie del vivere quotidiano quelle ambientate nelle stanze dell’antico Preemption Building e nei locali alla moda del prestigioso quartiere. Tutti i personaggi di Schickler sono degli eccentrici, portati a fare cose buffe e imprevedibili, ma mai senza una reale e intima motivazione. Anzi, è proprio questa spinta interna che li porta a realizzare la propria identità e che dà a ciascuno dei racconti una profondità che va ben al di là dell’apparente divertissement della trama. Dagli uomini ricchi e carismatici agli oscuri contabili, tutti sono animati dallo stesso idealismo, da un desiderio di mettere a posto le proprie vite, di uscire dalle maglie di un destino troppo spesso sgradevolmente beffardo. E per tutti l’amore e il desiderio appaiono come le uniche linfe vitali possibili. Uomini e donne si alternano nei ruoli di cacciatori o prede in un incalzante girotondo tra locali, appartamenti, aule di università.
L’autore, che con questa raccolta fa il suo debutto, costruisce scene di qualità cinematografica grazie a una scrittura brillante e precisa. Divertentissime, inquietanti e tenere in egual modo, le sue storie prendono in contropiede il lettore, trascinandolo in situazioni da commedia per poi rivelare squarci di inattesa serietà, se non di un mistero spesso smaccatamente fiabesco, altrove quasi metafisico. La sua sublime e distaccata ironia va di pari passo con una curiosità per gli aspetti oscuri e disturbanti dell’animo umano. I suoi personaggi condividono la magica facoltà di capire gli altri dalla luce nei loro occhi, e così fa lui.
Un grande esordio.
COLM TOIBIN
The Master
Fazi, pp. 366, €15,00
Traduzione di Maurizio Bartocci

Stanze in cui chiudersi, finestre da cui osservare il mondo, giochi di sguardi e silenzi più importanti della parola. Addentrarsi nella narrativa di Henry James è come affrontare un labirinto: un’esperienza esasperante e appagante allo stesso tempo. L’impressione è che a James nulla potesse sfuggire: attento osservatore ma soprattutto persona portata al vero ascolto del prossimo, egli seppe cogliere sia gli aspetti esteriori, le maschere sociali, i rituali della ben orchestrata società di cui fu un protagonista, sia vedere al di là di tutto questo per cogliere i minimi movimenti dell’animo umano e le sue contraddizioni in un’opera dalla capacità analitica raramente uguagliata.
Ma questo speciale potere dello scrittore, la sua onniscienza, la capacità di empatia con gli altri esseri umani sulla carta si tradusse in una abilità a vivere? L’irlandese Colm Tóibín, basandosi su un’ampia documentazione, romanza cinque anni della vita del celebre scrittore mostrandone gli aspetti più intimi, le mancanze più dei successi (proprio dal suo più palese fallimento prende le mosse il romanzo). Lontano da ogni cliché sul sacro fuoco degli artisti, The Master ritrae il James uomo in tutta la sua fragilità: solitario e timoroso di assaporare la vita, costantemente trattenuto dal comunicare appieno i propri sentimenti, tormentato da sensi di colpa verso persone adorate, come l’amica Constance Fenimore Woolson cui l’autore dedica uno dei capitoli più struggenti.
Quello che fa del libro un grande risultato è che Tóibín, il quale eleva il suo stile a quello dello scrittore americano, riesce a entrare in simbiosi totale con il suo soggetto, tanto che l’impressione è di leggere un romanzo dello stesso James. La stessa labirintica introspezione, l’acume, l’ironia Tóibín adopera per catturare la complessità del rapporto, mai totalmente chiaro, tra l’uomo e lo scrittore, e il mistero della genesi dell’arte ma soprattutto del destino che tocca a chi la crea.
LUIS SEPULVEDA
Il mondo alla fine del mondo
Guanda, pp. 127, €13,00
Traduzione di Ilide Carmignani

Luis Sepúlveda si rifà alla sua personale esperienza – è stato uno dei più noti corrispondenti della stampa tedesca sulle imprese di Greenpeace – per dare corpo a questo racconto che unisce l’avventura romanzesca all’indagine d’attualità. La vicenda si svolge nel 1988, quando un’agenzia giornalistica legata all’associazione ambientalista riceve un fax che informa di una nave giapponese che ha perso buona parte dell’equipaggio e subìto altri gravi danni. Il protagonista è un giornalista, esule dal Cile come lo stesso autore, che decide di dedicarsi al caso, affidandosi a un vecchio e schivo capitano con il quale tornerà sui mari della sua terra d’origine. Scopre così che l’imbarcazione altro non è una nave baleniera ufficialmente demolita, che può così esercitare impunemente la sua illegale attività.
La scrittura di Sepúlveda è di quelli semplici e dirette che raggiungono grandi fette di pubblico. E’ sinceramente innamorato di ciò che racconta, e questo libro non smentisce questo amore. Egli trasporta il lettore passo per passo nel viaggio del suo indomito reporter: elenca luoghi, traccia itinerari, cita termini locali, narra l’affascinante marginalità di quella che è davvero “la fine della fine del mondo”. Non basta però essere fedeli al proprio materiale, per quanto interessante, per creare un buon racconto. Sepúlveda pensa evidentemente che enunciare il mito voglia dire farlo vivere anche a chi legge, ma non riesce a dargli concretezza e cade spesso nella retorica e nella noia. A perderci è proprio il tema ecologista: sì, ci sono navi che sterminano liberamente animali in via d’estinzione nei modi più barbari, ma non potremmo saperne di più? Paradossalmente, quella che dovrebbe essere un’indagine finisce per non portare alla luce nulla di nuovo.
Una nota sull’edizione: Guanda ripresenta sul mercato un libro uscito appena un anno fa da Tea a un prezzo di €6,50: l’esatta metà di questo.