Friday, October 22, 2010

Thomas Cobb
Crazy Heart
Traduzione di Cristiana Mennella
Einaudi
Pagine 284, € 18

1987. A cinquantasei anni, “Bad” Blake è un cantautore country sul viale del tramonto. Alcolista e sfatto, è reduce da quattro matrimoni falliti, con un figlio che non vede da quando era bambino. Eppure in passato ha avuto tutto, successo, denaro, droghe e donne adoranti. Ha fatto da mentore al musicista Tommy Sweet che ora è una star, mentre a lui non rimangono che esibizioni in scalcinati locali di serie B. Durante un tour conosce Jean, una giovane giornalista intenzionata a raccontare la sua vita, ed è l’occasione per una conoscenza intima che da tempo non capitava al malinconico Bad.
Riscoperto grazie al recente film omonimo interpretato da Jeff Bridges, Crazy Heart è una vera e propria ballata country in prosa con tutti gli ingredienti che ci si aspetterebbe, il che costituisce la forza e insieme il limite del romanzo. Sono gli anni Ottanta, il country non è ancora globalizzato e annacquato dal pop dei grandi nomi, è un genere che esprime la durezza del vivere con un romanticismo dolce-amaro. Nel caso di Bad, personaggio pubblico e persona si confondono: è un uomo impulsivo e generoso, sempre pronto a darsi – ai suoi musicisti, al pubblico, alle donne – quanto a farsi del male. Non è un artista maledetto da cliché, nonostante i suoi demoni, né la star che si omologa ai dettami dell’industria, come l’ex-compagno di band Sweet.
Cobb, alla sua opera prima come scrittore, dà prova di grande controllo della sua materia narrativa: il suo stile è improntato a un solido realismo che non diventa mai minimalista. Salta molti passaggi introduttivi (sogni e ricordi di Blake sono tutt’uno con la sua realtà) ed eccelle nel dialogo, tanto che il romanzo è una sceneggiatura filmica pressoché pronta per il set. Non ci sono sorprese ma c’è autenticità in questa storia di quasi-redenzione che, tuttavia, sembra perdere un po’ di sapore nella traduzione italiana.

Wednesday, July 28, 2010

Jonathan Coe
I terribili segreti di Maxwell Sim
Traduzione di Delfina Vezzoli
Feltrinelli
Pagine 368, € 18

Jonathan Coe, con il precedente La pioggia prima che cada, sembrava avere abbandonato la componente ironica a favore di una visione della vita più malinconica e cupa. The Terrible Privacy of Maxwell Sim segna quindi un gradito ritorno alla commistione tra dramma e umorismo a denti stretti – così British – che ha reso celebri romanzi come La famiglia Winshaw e La casa del sonno. Come in queste due opere, Coe costruisce un intreccio ingegnoso che collega passato e presente, scoprendo e unendo elementi che, come in un mystery, svelano verità sepolte.
Maxwell Sim è un uomo qualunque nella Gran Bretagna di oggi: abbandonato da poco da moglie e figlia, in aspettativa dal lavoro a causa della depressione, sente l’impulso improvviso di tornare a far parte del mondo e stringere nuove relazioni. Coglie al volo una (dubbia) opportunità di lavoro che lo porta ad attraversare il paese su una Prius carica di spazzolini da denti ecologici, ma le deviazioni dal percorso prestabilito lo porteranno a rivisitare la propria storia personale.
Chi ama, di Coe, la sincerità, la partecipazione emotiva e la fiducia nel potere della narrativa non resterà deluso. Maxwell Sim, a quarantotto anni, ha ancora molto da scoprire su di sé e questa scoperta passa attraverso il punto di vista di altri personaggi che agiscono nello stesso tempo da narratori, uno dei quali (realmente esistito) è Donald Crowhurst, navigatore dilettante che nel 1968 finse di circumnavigare il globo per vincere una sfida, ma che giunse solo alla morte e alla follia. Con Crowhurst, Max inizia a identificarsi: il suo viaggio è un progressivo abbandono delle rotte a lui note, ma senza epilogo tragico. Dovrà perdersi per ritrovarsi, imparando a mediare con la tecnologia, parte integrante del rapporto con la realtà di ciascun personaggio su cui Coe posa uno sguardo ironico.
Maxwell è un anti-eroe che appare come un perdente perché si è sempre visto come tale, che impara ad aprirsi al mondo, e che forse, alla fine dell’avventura, smetterà di "non piacersi abbastanza", come gli rimprovera la moglie. Un uomo che pensa di non lasciare un segno e che si rimetterà in discussione passando attraverso prove umilianti e scherzi del destino.

Tuesday, June 8, 2010

Ángela Vallvey
L’assassinio come arte poetica
Traduzione di Roberta Bovaia
Guanda
pagine 340, € 18

Ah, la poesia: quale forma letteraria appare più pura, personale e disinteressata? Lontana da esercizi di potere e bassezze commerciali, si direbbe. L’ironico giallo della spagnola Ángela Vallvey Muerte entra poetas dimostra proprio il contrario. Tredici fatidici personaggi – tra icone culturali, celebrità mediatiche e enfant prodige della narrativa – si riuniscono per un convegno esclusivo in ricordo del poeta laureato Alberto Pons, presso la tenuta della vedova, fuori Toledo. Uno di loro viene ucciso e naturalmente tra gli altri dodici si cela l’assassino. A Ignacio “Nacho” Arán, meteorologo, detective dilettante e poeta a tempo perso, tocca indagare, aiutato da una zia anziana ma tecnologicamente avanzata e un giovane hacker.
Dichiaratamente ispirato ai mystery di Agatha Christie, il romanzo è una sorta di engima della camera chiusa contemporaneo, ambientato inoltre in un circolo chiuso, un gruppo d’élite autoreferenziale (il convegno non ha pubblico) per il quale vengono fatti circolare migliaia di euro al solo scopo di preservare l’immagine di un divo della cultura. Nacho, con la sua posizione di outsider rispetto a questo mondo, si ritrova a fare da confidente degli altri poeti e a osservarli dall’esterno; è così che vengono alla luce antichi rancori e rivalità e che nel ricordo altrui prende forma la figura della vittima, piena di ombre.
La Vallvey è caustica nel tratteggiare un mondo di intellettuali pronti a costruirsi piedistalli (Coloma, eterno candidato al Nobel, addirittura non parla con i colleghi) ma che facilmente si rivelano... umani, troppo umani, pronti a distruggere vite altrui a colpi di critiche, attaccati alle proprie posizioni di potere. Cosa determina, in definitiva, chi saranno gli illustri esponenti della cultura di un paese? Merito, casualità, mode, amicizie, strategie? Questa la domanda che sembra porre la Vallvey nel suo feroce divertissement, giallo atipico e intrigante.

Tuesday, April 13, 2010

Mo Hayder
Ritual
Traduzione di Adria Tissoni
Longanesi
pagine 412, € 18,60

Mo Hayder, promessa del thriller inglese del terzo millennio, ritorna alle atmosfere disturbanti che l’hanno resa famosa con romanzi come Le notti di Tokyo, Il trattamento e Orrore sull’isola. Ritual è incentrato su due personaggi, il detective Jack Caffery, alla sua terza avventura nelle pagine della Hayder, e la sommozzatrice Phoebe “Flea” Marley. Tutto inizia nelle acque infide del porto di Bristol, con il ritrovamento di una mano mozzata e con i travagli esistenziali di Flea, protagonista outsider, sulle spalle il peso di un terribile trauma legato proprio alle immersioni: la misteriosa morte dei genitori negli anfratti del Bushman’s Hole, in Sudafrica. L’inizio fa prevedere un intrigante risvolto soprannaturale, ma lo svolgimento della trama tradisce le aspettative e il thriller, incentrato su macabri rituali della stregoneria africana, si rivela presto abbastanza convenzionale.
Flea, a suo agio solo nelle silenziose profondità acquatiche, non soffre solo nella psiche ma anche nel corpo, con un handicap che minaccia di privarla proprio delle immersioni. L’affascinante Caffery è un investigatore ossessionato dalla vendetta, il cui personale trauma ha reso incapace di veri rapporti affettivi. Suo confidente è l’Uomo che Cammina, nomade per scelta, anch’egli preda di demoni personali. Flea riceve a sua volta aiuto da un esotico ed eccentrico personaggio, il quale custodisce segreti oscuri che hanno a che fare con lei e suo padre. Completano il quadro l’amico Tig e il collega Dundas, entrambi coinvolti a vario titolo nel mondo della droga. Suona tutto un po’ eccessivo? In effetti lo è: con il suo affollamento di personaggi danneggiati dalla vita, Ritual non fa che prendere a piene mani dalla gamma di cliché che appesantiscono molti thriller. I cliché (anche narrativi: un esempio, le foto rivelatrici trovate appese proprio nella tana del cattivo) soffocano le potenzialità del romanzo, che risulta farraginoso e faticoso alla lettura. Chi volesse comunque dar loro un’altra chance, potrà vedere di nuovo in azione Flea, Caffery e l’Uomo che Cammina nei nuovi due lavori della Hayder, Skin e Gone.

Wednesday, February 10, 2010

Christopher Isherwood
Un uomo solo
Traduzione di Dario Villa
Adelphi
pagine 150, € 16

Ventiquattro ore nella vita di George, maturo professore universitario di origine britannica nella solatia California. Non si tratta di una giornata qualunque: George ha da poco perduto in un incidente l’amato compagno Jim. Siamo negli anni Sessanta, e nessuno, a parte l’amica Charlotte, è a conoscenza del momento che l’uomo sta vivendo. Il risveglio mattutino che apre il romanzo è un vero e proprio risveglio della coscienza di George, che diventa dolorosamente e acutamente cosciente dell’ambiente che lo circonda, della finitezza della propria vita, della superfluità di tutto. La maschera apparentemente intatta del compassato docente porta in giro il vero George, che incontra così la tronfia vicina di casa, i colleghi, gli studenti diligenti ma senza guizzi, l’emotiva Charlotte e infine Kenny, uno studente dotato con cui l’uomo vive un inatteso momento di intesa intellettuale e forse qualcosa di più.
A Single Man, riportato in auge dal film diretto da Tom Ford, è considerato uno dei primi e migliori romanzi del movimento di liberazione gay, ma la sua qualità letteraria lo eleva al di sopra di qualsiasi manifesto e finalità. Racconta gli effetti inesorabili della perdita tenendosi tuttavia lontano da qualsiasi sentimentalismo, e attraverso lo sguardo straniero – in molti sensi – del suo protagonista racconta lucidamente di un mondo che va cambiando. Sono gli USA neo-consumisti delle highway e dei sobborghi dai nomi pittoreschi, della media borghesia placida e ipocrita, degli insegnanti che si sentono in un certo senso colpevoli di essere veicoli di idee invece che produttori di beni di consumo. George li biasima in cuor suo, poiché vede ancora se stesso come “un rappresentante della speranza”, che “cerchi di vendere a un angolo di strada un brillante vero per un nichelino”: la grande maggioranza non crederà mai vero il brillante, lasciandolo così al sicuro. I brillanti di George, invisibili ai più, sono il dolore, i ricordi, la speranza ostinata di poter ancora vivere il presente nella sua pienezza.