Friday, December 14, 2007

Ian McEwan
Chesil Beach
Einaudi, pp. 136, € 15,50
Traduzione di Susanna Basso

Edward e Florence, due giovani molto innamorati nell'estate inglese del 1962: appena prima dell'avvento dei Beatles, della rivoluzione sessuale, dell'inizio del mondo come lo conosciamo adesso. Lui, ragazzo pragmatico e di buon cuore, conosce i nomi delle piante e i personaggi storici, lei, di buona famiglia e promettente violinista, vive un'interiorità chiusa in sé che si esprime solo attraverso la musica. In una camera d'albergo sulla romantica spiaggia di ciottoli detta Chesil Beach stanno per consumare la prima notte di nozze, entrambi vergini e ciascuno con aspettative molto diverse. Per meglio dire, Florence non ha aspettative, solo un'ansia immensa e inesprimibile, il desiderio che passi tutto più in fretta possibile, e la paura di deludere il marito. Il quale invece non aspetta altro che dare sfogo alle pulsioni a lungo represse e di scoprire un nuovo mondo di piacere e libertà. I gesti sbagliati, le peggiori scelte di parole e un equivoco che si frappone tra di loro come un muro porteranno la coppia a una irreparabile frattura.
E' un romanzo breve e bellissimo Chesil Beach, un racconto di cristallina semplicità con cui McEwan, dopo il monumentale – per ambizioni, non numero di pagine – Sabato, si propone come voyeur senza morbosità, ritornando con il proverbiale senno di poi a un momento storico che coincide anche con il punto di svolta di due vite individuali. Tralasciando il dettaglio delle vicende dei due giovani (McEwan lascia sottilmente intendere cosa stia alla radice dei problemi sessuali di Florence), si tratta di una storia che parla ai lettori moderni, affrontando l'eterno e doloroso tema della comunicazione tra uomini e donne, del conflitto tra estroversione maschile e introversione femminile, e dei giochi di potere che si mettono in atto anche nella coppia più affiatata: "Ciò che aveva in mente Florence... era l'immancabile smania che lei si concedesse di più. [...] Perfino nei momenti più felici, aleggiava su di loro l'ombra di quel biasimo, il malcelato livore dell'insoddisfazione."
Un romanzo tristissimo, più commovente di una storia romantica in cui a opporsi all'amore dei protagonisti sia un fato malevolo e più grande di loro.
Patrick McGrath
Trauma
Bompiani, pp. 252, € 17
Traduzione di Alberto Cristofori

Non è facile parlare di questo ultimo romanzo di McGrath. Si tratta della storia di Charlie Weir, psichiatra dedicato ma dalla vita privata travagliata, negli anni Settanta: segnato da rapporti conflittuali "da manuale" con la madre abbandonata dal marito e con il fratello con cui è in competizione, persegue da sempre lo scopo di salvare anime umane, scopo in cui fallisce secondo una tragica ironia quando non riesce a evitare il suicidio del cognato, e anzi se ne ritiene responsabile. Una tipica storia alla McGrath sul male di vivere e sulla ricerca di una cura, di un ordine al caos, che altro non è che lo scopo della narrativa stessa. Con Trauma, l'autore procede nella personale reinterpretazione del gotico, categoria dell’anima ancor più che genere letterario, capace di resistere a mutamenti epocali e di non perdere nei secoli la dimensione intima e la cupa fatalità che la caratterizzano da Walpole in poi.
Anche in questo ultimo lavoro il clima gotico scaturisce da uno stile piano, naturalistico, apparentemente senza possibilità di equivoco, priva delle ambiguità di una storia di spettri. Ma il romanzo, come altri dell'autore, è raccontato in prima persona e da questo dipende la posizione problematica del lettore, alle prese con un narratore potenzialmente inattendibile. Quanto inattendibile? Il finale giunge quasi affrettato, avulso dal resto della storia: proiezione onirica oppure unica parte reale dell'intera storia? A complicare la fruizione, la quarta di copertina dell'edizione italiana racconta quello che di fatto è uno spoiler della trama e di cui non c'è traccia nella storia narrata da Weir.
Cosa segna dunque il confine tra le sfumature dell'ambiguità veicolate da un sapiente narratore e l'incomprensibilità pura, se a chi legge non viene dato un appiglio, una chiave di decifrazione che spicchi su altri elementi? O forse il genio sta nel fare piazza pulita delle "mappe" che solitamente lo scrittore offre al lettore, offrendogli la visione della nuda coscienza umana? Il fallimento o il trionfo dell'arte della narrativa?